La montagna orfica ed arcana di Claudio Morandini

L’aostano Claudio Morandini ha scritto un breve ed intelligente romanzo sui paradossi dell’essere montanaro.
Un libro su una montagna immaginaria, assurda e misteriosa, fatata ed inquietante, che prima d’essere un luminoso trampolino di lancio verso il cielo, si configura come un oscuro e cavernoso antro indirizzato verso gli austeri inferi, gli angosciosi e sconfinati abissi della terra, tanto può essere arcigna, chiusa, orgogliosamente inaccessibile, isolata ed inesplicabilmente autarchica.
Una montagna ingannevole, quella di Morandini, perché non spicca il volo, ma semmai il tuffo, dai contorni per altro universali, prim’ancora che familiarmente particolari (nel suo racconto potremmo essere ovunque sul nostro arco alpino – dall’occitania al carso), formatasi paradossalmente per implosione, per il progressivo sprofondare di un terreno inaffidabile, irrimediabilmente mobile, friabile, fangoso, porosamente calcareo, piuttosto che per il lento e paziente lavorio di un fiume o per il ritiro di maestosi ghiacciai del pleistocene.
Un racconto semplice e al contempo colto, il suo, calato in un’orfica ed arcana realtà montana, eleusinamente sospesa, potremmo dire, e quindi oscillante, tra il mondo dei vivi e una sorta di indecifrabile e pagano regno dei morti o semplicemente di altri semivivi, non propriamente umani, abitanti di un profondo e impenetrabile mondo sotterraneo, fatto di malmostosa terra, frazionata roccia, caotico marciume vegetale, costituitosi nel tempo per l’innumerevole concatenarsi di depressioni geologiche, a formare una vera e propria densa ed inestricabile marea di doline, testimonianza plastica ed ellittica di una continua dissoluzione verso il basso di tutto il gravoso tessuto montano, a cominciare dagli imperscrutabili animi dei suoi “alticci” ed elusivi abitanti.
Morandini ama la montagna, che è vasto e composito terreno naturale della sua fertile immaginazione, dà l’impressione di padroneggiare la classicità della nostra letteratura, pensiamo a quella del novecento (tra i molti echi, crediamo di aver colto quelli ctonii del Vittorini più mitologico e quelli surreali e fantastici del Buzzati montanaro in metafisica attesa), e poi di conoscere la musica, con la quale sembra coltivare un rapporto speciale, custodire un’armoniosa e sonora confidenza.
Sì, perché protagonista del suo racconto, ambientato negli anni ’80 (ma in fondo senza tempo), e quindi capace di riportarci suggestivamente all’era “primitiva” delle audiocassette, dei mangianastri e dei primi piccoli registratori portatili (ancora a tecnologia analogica), è una giovane etnomusicologa salita o (come presto scoprirà) discesa fin lassù, per inseguire, registrare, catalogare, i canti dei nomadi pastori, che da un alpeggio ad un altro, da una montagna all’altra, intonerebbero tutta una serie di modulate e suggestive intonazioni a carattere antifonale, per facilitare la comunicazione a distanza tra loro.
Ma il vero canto o addirittura la vera sinfonica corale, segreta, nascosta, negletta, voce ultraterrena, quasi spirituale (da una parte), ed invece (dall’altra) immanente e insopportabile testimonianza di solitudine e sofferenza, capace però di esprimersi sotto forma di pura e sorprendente arte, si rivelerà essere proprio quella che (inafferrabile) proviene dal sottosuolo e dalle sue indelebili, magmatiche e risonanti memorie, udibile soltanto in certi onirici, notturni e allucinati frangenti. Una prova autorevole.

(Marco Maiocco, MusicheParole)

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