Nato e vissuto ad Aosta, Claudio Morandini, scrittore, insegnante, sceneggiatore radiofonico e teatrale, ci schiude una visione alternativa della montagna, ben diversa da quella affascinante, placida, contemplativa, cui siamo abituati soprattutto come turisti. Ce la propone più in profondità, come una forza della natura primordiale.
La protagonista, una studentessa di etnomusicologia, dopo aver tenuto sepolta, nella sua memoria d’infanzia, un’esperienza profondamente suggestiva che aveva vissuto da bambina in una località di montagna dove si recava con i genitori, decide di sfruttare quella che – forse proprio per la suggestione lasciata da quell’episodio – è diventata sua materia di interesse e studio, per fare delle ricerche e dare un contesto reale al frutto dei suoi ricordi.
Si fa accompagnare dal fidanzato Roberto a Crottarda, un piccolo paese collocato su un versante della montagna quasi perennemente in ombra: il sole vi arriva per pochissime ore al giorno e spesso non più in grado di riscaldare sufficientemente. Il clima è del tutto inospitale, freddo, umido, di un gelo che penetra nella pelle, nelle ossa, nella mente. Eppure è lì che i suoi genitori sceglievano di passare il periodo di vacanza estiva per godere di quel ritiro da tutto e da tutti. E lei, bambina, annoiata e a disagio, aveva pochi momenti davvero speciali, concentrati di notte o prima dell’alba: i momenti nei quali sentiva risuonare dei canti inconsueti, strani, struggenti, inclassificabili. Aveva provato a confrontarsi con i genitori, ma sembravano non aver sentito nulla e non la prendevano sul serio. Si era fatta l’idea che si trattasse di richiami di pastori che, sugli alpeggi, vincevano la solitudine con una sorta di evoluta comunicazione musicale, seppure di una musica totalmente fuori da qualsiasi schema armonico conosciuto. Ora, con le conoscenze e la formazione etnomusicale che stava facendosi all’università, aveva deciso di svelare quello che era rimasto un mistero affascinante nella sua memoria.
Ma Crottarda non è un paese normale. I ricordi di bambina avevano cancellato (o forse, allora, neppure registrato), lo strano comportamento dei suoi abitanti. Burberi, distaccati, diffidenti, addirittura ostili; oppure, all’opposto, esageratamente se non perfino crudelmente burloni e ridanciani. Una sorta di doppia personalità che, si comprenderà a poco a poco, rappresenta per loro una forma di difesa e attacco. C’è un’emozione diffusa subliminalmente, un palpito di solitudine, paura, diversità che viene schiacciato con atteggiamenti di brio forzato e che in rare occasioni qualche abitante si lascia sfuggire con gli estranei: “Come fa senza figli alla sua età? Io sarei perduta. Li voglio sempre attorno a me fino a sera. Perchè quando si addormentano diventa tutto più difficile, si affacciano pensieri cupi (…). Se i bambini ci chiamano nel sonno, o se si sono svegliati da un brutto sogno, accorriamo subito a consolarli, perché la loro pena segreta è la nostra salvezza, capisce? Rincuorando loro riuncuoriamo anche noi, sorridendo delle loro paure troviamo il coraggio di sorridere delle nostre”.
Per qualche motivo incomprensibile, non accettano di buon grado la sua presenza nè tantomeno gli studi che è venuta a fare e che fingono di non comprendere.
Solo due persone in tutta Crottarda si riveleranno, pur a modo loro, comprensive e accoglienti. Il signor Amedeo, un vecchio scultore in legno, la cui produzione sembra costituita esclusivamente di contorte e inquietanti figure solo vagamente antropomorfe; e una ragazzina, Bernadetta, che divide la camera con lei; personalità incredibile! Creatura bucolico-pastorale, capricciosa, volubile, ora sguaiata e volgare, ora mansueta e delicata. La protagonista avrà bisogno di molti giorni per poterne comprendere l’eterogena personalità, passando attraverso la diffidenza iniziale, il disagio di dover condividere la stanza e a volte il letto, il disturbo arrecatole nello studio dal suo continuo volersi impadronire del suo registratore, lo sconforto di sentirsi derisa e umiliata. Sconforto che tocca il suo apice il giorno in cui Bernadetta l’accompagna sugli alpeggi per ascoltare i canti dei pastori, ma non sono certo i canti che aveva udito da bambina quei motteggi sguaiati e triviali che le rifilano gli uomini, con la complicità di Bernadetta! Sembrano piuttosto una vendetta contro chi, come lei, non è destinato a restare per sempre lì, contro chi sentono che non sarà mai dei loro, perché li osserva da lontano, senza entrare, davvero, in sintonia con la loro goffa personalità: “Sotto l’ira che aumentava avvertivo una sofferenza profonda, trattenuta, una sofferenza che univa i più consapevoli agli ignari, gli uomini alle donne. Qualcosa che, oscuramente, deve emergere ogni tanto, come una bolla di gas sulla superficie di una palude, e che conviene lasciare esplodere per non soffrire ancora di più”.
“Li sento oscillare questi poveri abitandi di Crottarda, in ogni gesto, ogni giorno (…) tra la loro esistenza ufficiale e il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria, e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sogno, tra lo sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza che spesso riporta un senso tangibile di malinconia. Coltivano antipatie, anzi odi atavici, ma allo stesso tempo non smettono di provare curiosità (…), gelosia, invidia, una strana mistura di attrazione per ciò che non sono e non saranno mai (…). Oscillano tra un sopra che si allontana e diventa irraggiungibile, o che schiaccia e opprime, e un sotto in cui sprofondare, finalmente, e in cui continuare a nutrire risentimento e ansie; tra un umano e non umano; tra vivo, e non vivo”.
Quando conosce Fausto, sembra che le sue ricerche possano contare su nuovi impulsi. Fausto è uno speleologo ricercatore che esplora i cunicoli della montagna e ne studia la particolare conformazione carsica. Lei lo interroga quasi disperatamente, col bisogno irrefrenabile di avere da lui la conferma che quel canto esiste, che qualcun altro oltre a lei lo ha sentito. Ma quando si sente vicina alla soluzione dell’antico mistero, improvvisamente tutto, a Crottarda, le si rivolta contro: dal sindaco, voce solista, al coro dei paesani, l’autore inscena un melodramma in cui la protagonista si ritrova sola, oggetto di fredda repulsione, nell’abisso di quell’arcana inquietudine che è l’essenza insondabile di Crottarda.
La storia è originale fin dal suo inizio: la protagonista non ha un nome, non viene mai chiamata da nessuno, in tutto il romanzo, come a enfatizzare quello che si svelerà il suo ruolo nella storia: l’inserimento parziale in un mondo che non consente mezze termini: o tutto o niente. O con loro o contro di loro. E, studiandoli come fenomeni da baraccone, non aveva certo mostrato intenti comunitari.
La montagna di Morandini è la Montagna che si innalza dalla superficie del terreno ma che si inabissa anche nelle profondità della terra dalle quali milioni di anni fa sconvolgimenti immani l’hanno rigettata; è la Montagna che non scende a patti con insediamenti prevaricatori perché è lei a dettare le leggi: sole e ombra, caldo e freddo, non sono ‘comodità’ per l’uomo, per abbronzarlo o rinfrescarlo. Sono espressioni di un tempo indominabile. La Montagna di Morandini contiene ancora nei suoi anfratti più inaccessibili, i misteri di una mitologia che non ha avuto l’occasione e la fortuna di una voce omerica che ne cantasse eroi e gesta. Forse perché in quella mitologia non ci sono eroi, non ci sono gesta. I suoi abitanti sono deboli, sciatti, timorosi di apparire perché consci della loro imperfezione. Eppure, a volte, non riescono a trattenere il loro canto; quel canto sconosciuto, inafferrabile, inclassificabile che aveva sconvolto e impresso la mente della protagonista bambina, solitaria e sensibile. Quel canto le si riproponeva ogni volta che la Montagna la percepiva recettiva al suo richiamo primitivo e possente. Ma si silenziava subito quando lei voleva portarlo alla luce e decifrarlo, diffonderlo e svelarlo.
(Raffaella Tamba, Libro Guerriero)