La dura vita delle valli alpine
La storia di un uomo solitario

Il vento lo piega di lato, mentre scende il paese. La fatica lo sorprende, e lo fa quasi ridere il pensiero di quanto faticherà al ritorno, in salita, con quel vento. Il sentiero scivola giù per canaloni e pianori, e talora scompare tra le vecchie ceppaie sfatte, tra l’erba alta o il pietrame in perenne movimento, ma l’uomo sa come non perdere la strada.

Adelmo Farandola, protagonista di questo romanzo di Claudio Morandini, fa parte di un ristretto (e quasi in via di estinzione) insieme di tipi che sia per abitudine, sia per seguire un moto archetipale incontrollabile non riescono a staccarsi da quel mondo primordiale e minaccioso, da quel sistema di restrizioni e rinunce, di incertezza e durezza propri della vita in alta montagna.
Tipo in greco vale marchio, segno, impronta, immagine, forma. Adelmo non è poi differente dai dirupi, dal pietrame dai valloncelli aridi, tutto frane, dalla neve che d’inverno grava silenziosa su ogni cosa. Fa parte del paesaggio, è il paesaggio.
Per questo Adelmo Farandola non ha alcuna licenza, non segue regole. Quel vallone è suo. Gli animali sono suoi. L’aria è sua (…) Qui attorno è tutto mio, pensa mentre accende il fuoco. Tutto. Tutto.
La baita dove vive, soprattutto d’inverno è immersa in una penombra cupa. Niente a che vedere con la Hütte costruita a Todtnauberg da Martin Heidegger, in un’alta valle della Foresta nera. Qui il filosofo avrebbe scritto Sein und Zeit. La capanna di Todtnauberg è povera ma è proprio questa povertà il presupposto dell’ascolto. Ascolto del pensiero, ascolto del cuore.
La baita di Adelmo è povera e basta. Lui ha perso la capacità di ascoltare, oltre a quella di esprimersi. Quello che sente sono solo le raffiche dei venti gelidi che si insinuano fin tra le pareti della baita e che sembrano battere alla porta, di giorno e di notte. Adelmo ha imparato ad accettare la solitudine. L’ha imparata ad amare. Scende in paese quando ha bisogno di provviste. Poi se ne ritorna nel silenzio dei suoi luoghi che col tempo ha imparato a disattivare. In uno di questi rari ritorni dal paese, “a metà del bosco di larici, proprio là dove il sentiero torna a inerpicarsi senza nemmeno addolcire l’erta con qualche curva, Adelmo Farandola sente un ansimare seguirlo.” È un vecchio cane. L’uomo inaugura il rituale della conoscenza alla sua maniera: raccoglie un sasso e glielo tira conto. Il cane, però, non percepisce l’ostilità dell’uomo, e lo seguirà fino alla baita.
Questo cane senza nome gli diventa compagno e amico e gli farà riscoprire il conforto di una residua umanità…

Giunto l’inverno, Adelmo Farandola si accorge di avere concesso al cane di rimanere dentro la baita anche la notte. Lo vede accoccolarsi ai piedi del letto con un sospirone. È diventato un compagno, pensa, un compagno di vita, pensa. Da quando precisamente non lo sa. Non sa quando ha smesso di allungargli una pedata per il gusto di vederlo sobbalzare, o per il piacere di farsi obbedire senza ragione. Puniscilo, anche se non sai perché, lo saprà lui, si è detto per un po’ di tempo. Ma ora che l’inverno è arrivato e le nevicate hanno cominciato ad elevare attorno alla casa e alla porta, un muro bianco, non ci prova più gusto a castigare il cane, e preferisce tenerselo accanto. A volte addirittura se lo prende in braccio, grosso e scapigliato com’è, e siede con il cane sulla pancia…

Questo romanzo è composto con pochi personaggi: Adelmo, il guardiacaccia e piccole apparizioni di figure fugaci che scambiano poche battute con il protagonista o che sono delle comparse che accendono un ricordo o una scena per renderla più viva. Eppure il romanzo di Morandini è straordinariamente ricco di dialoghi. Lunghi dialoghi, soprattutto con il cane. Tutto è reale nella testa di Adelmo, le domande e le risposte. Un esercizio, il suo, praticato con una certa costanza, per cercare di disattivare la monotonia della solitudine e del silenzio. Più di una volta Adelmo aveva intrattenuto conversazioni con un muro, con un attrezzo. E alla fine anche con un cadavere. “Ti ho ucciso io?”, gli chiede l’uomo.

Potrebbe essere. Ma no, non mi pare, non direi proprio. Ricordo solo un colpo in testa, bisbiglia il morto. Una breve fitta qui, tra un occhio e l’altro. Un male che non ti dico. Ma è durato poco, pochissimo. Se sei stato tu, davvero non lo so. Sono rimasto in piedi, questo lo ricordo bene. Tipo un albero. Sono morto in piedi. Una morte invidiabile. Ci è voluta la va- langa per farmi mettere comodo.”

Neve, cane, piede è un romanzo tanto rude quanto poetico, fatto di ombre e pietre. Pur composto da pochi elementi rapisce. Ha questo potere. Non a caso è diventato un sorprendente e indimenticabile caso letterario.

(Bonifacio Vincenzi, Il sogno di Orez, Anno II, n. 2, gennaio-marzo 2022)

  • Share on Tumblr