Una nuova storia tutta da leggere. Come nasce e da dove arriva la vita di Cosimo, protagonista del romanzo?
Cosimo Peragalli è venuto fuori un po’ alla volta, da pagine molto diverse: è la sintesi di figure che avevano un altro nome e talvolta anche un’altra età e un altro sesso. Quando si è trattato di lavorare sul materiale alla base del romanzo, e di farne dei capitoli con una loro continuità, ho distillato, per così dire, i tratti comuni tra i diversi personaggi, e ne ho fatto un unico protagonista. Vederlo nascere e formarsi – lo confesso – è stato avvincente: lo è sempre, quando si ha a che fare con figure che non corrispondono a stereotipi, e che posso osservare da una certa distanza, con un certo spirito analitico e anche critico, mentre si delineano al di là delle premesse. Comunque, alla fine, io non so chi sia davvero Cosimo Peragalli. L’ho studiato, come lui studia gli altri, ho provato a capirlo, sono rimasto in attesa che si rivelasse, ho rispettato i suoi silenzi, l’ho seguito nei suoi momenti di insofferenza, l’ho aspettato nei suoi abbandoni; continuo ad apprezzare il suo senso dell’umorismo, mi diverte sempre il suo oscillare tra enfasi e understatement, mi intrigano le sue sbandate verso lo strano e l’improbabile, e alla fine riconosco in lui certi tratti, certe esperienze in comune con me senza che questo me lo faccia sentire più vicino. Ma chi sia davvero resta, anche per me, un mistero, per quanto modesto.
Nel romanzo scrivi: “L’interrogazione orale è un’occasione preziosa per osservare la metamorfosi che la tensione provoca negli alunni – l’ho constatato centinaia di volte, in questi anni di insegnamento”. Cosa significa per te insegnare?
Be’, questa frase la dice – la pensa – Cosimo Peragalli, il protagonista del romanzo. Per lui la scuola sembra essere un mondo chiuso in cui infrattarsi per misurare la distanza (generazionale, culturale, antropologica) tra gli uni e gli altri e scrutarsi e ascoltarsi senza volersi capire, riuscire a capirsi, in un continuo gioco di fraintendimenti. Cosimo si aggira a scuola come in un osservatorio o un laboratorio, sembra applicare ai suoi studenti e ai colleghi lo stesso metodo di analisi che applicava da bambino sugli insetti, sugli adulti o sui coetanei (o su se stesso): c’è sempre qualcosa di teratologico nella sua visione. Io, di mio, dopo decenni di insegnamento ho una visione della scuola un po’ diversa dalla sua. Non ho mai vissuto l’insegnamento come qualcosa di lontano dalla scrittura: anzi, è sempre un lavorare con la scrittura, mia o altrui, con la tradizione letteraria, con i meccanismi della comunicazione e le sottigliezze della persuasione. È trasmettere qualcosa: strumenti, saperi, curiosità, arte dell’ascolto, una certa idea di lavoro paziente e metodico. Per me è anche un rimanere a contatto con la realtà, con una fetta importante di realtà. È anche provare a dare senso all’insensato, quando di colpo siamo travolti da cambiamenti o da aggiustamenti studiati da chi la scuola non la conosce davvero. Non ho mai sentito l’insegnamento come una missione – questo è un grande, subdolo, untuoso equivoco: siamo professionisti, non missionari.
C’è uno spazio e un luogo che non manca mai nelle tue storie, la montagna. “Ascoltavo lo sciabordio costante e vasto tutto attorno a me, e parlavo a tutti del fracasso imprevedibile delle montagne, degli schianti delle rocce e dei ghiacciai”. È un luogo che ti aiuta a scrivere?
Nel Catalogo dei silenzi e delle attese l’insofferenza del protagonista per la montagna si concretizza nella fuga dai luoghi dell’infanzia verso il “piattume” del Delta. La sua, di Cosimo Peragalli, è una montagna prima sopportata, poi respinta, per lo più taciuta (in vari capitoli l’ambiente alpino c’è, tutt’attorno, ma non se ne parla mai). È una montagna al contrario (in un episodio i bambini, per elevare un monticello di terra, scavano un buco nel terreno, e finiscono per rimanere proprio dentro questo buco, dove fingono di essere morti). È una montagna che ci insegue, con vaghi intenti vendicativi (in un altro capitolo, come in una parodia di maledizione biblica, tutto un repertorio di cose di montagna trascinato dalla piena raggiunge Cosimo che si credeva al sicuro nel Delta). Già ne Gli oscillanti avevo esplorato una specie di anti-montagna (montagna è tutto ciò che rimane su attorno a noi, che non crolla e non sprofonda, almeno non subito): ecco, io ormai reagisco alla montagna così, declinandola in modi nuovi, smentendola, ribaltandola, negandola. La montagna continua ad “aiutarmi a scrivere”, come dici tu, perché per me è il luogo delle illusioni prospettiche, degli spazi che si dilatano e si restringono, dell’inaspettato, della vertigine, del perturbante, dello sprofondamento, dell’estraneità. Non mi importa niente di raccontare la vita in montagna o di magnificare l’esperienza del ritrovare se stessi in montagna, lo fanno già in troppi e io non saprei farlo, mi scapperebbe da ridere. Diciamo che è ancora l’ambiente giusto per sperimentare quello sguardo scrupoloso e un po’ spaventato sulle cose che mi interessa sviluppare. Però anche i palazzi pieni di stanze e corridoi e porte chiuse vanno bene; anche le colline hanno le loro ombre e i loro silenzi; anche il piattume del Delta nasconde segreti sotto terra.
Quanto è importante il silenzio nella vita di un essere umano?
Un buon attore sa dilatare le pause tra una parola e l’altra fino renderle oggetto di senso quanto e più delle parole stesse della sua battuta. Un buon compositore sa lavorare sul silenzio come su un timbro strumentale o su un grappolo di note. Un buon poeta sa lavorare sui pieni e sui vuoti della pagina. Un buon uccello canterino sa lasciare un momento di pausa dopo ogni gorgheggio. Molti però ne hanno proprio paura: il paesaggio sonoro che ci avvolge oggi è un mix spaventoso di musica commerciale sparata a palla, suoni digitali, suonerie, rumori di traffico e di macchine e accessori di ogni tipo. Se vogliamo isolarci da questi rumori di fondo infiliamo degli auricolari che ci sparano in testa musica a volume ancora più alto e di solito di qualità ancora peggiore. Ricordi il lockdown? Il silenzio spaventava così tanto che sui balconi si improvvisavano dj set, si suonavano trombe e altri strumenti, si intonavano arie d’opera – non sembrava un modo per sentirsi più vicini o meno soli, e se lo era non funzionava: era solo un modo puerile e melenso per reagire allo sgomento di una condizione sconosciuta. O pensa a quei poveracci che in montagna si portano sottobraccio bluetooth che pompano musichette che si potrebbero ascoltare in qualunque altro momento della giornata. Pensa al pubblico che ridacchiava e parlottava durante l’esecuzione di 4’33’’ di John Cage, per riempire di rumorini quel silenzio, per sentirsi vivi attraverso il cincischiare. Mi paiono tutte dimostrazioni dell’importanza del silenzio: se ci sgomenta, se in un orecchio ci bisbiglia il nulla, reagiamo come mocciosi, blaterando per non sentirne l’alito. Il silenzio è molto più grande di noi, molto più vasto, leopardianamente vasto: potremmo non esserci più, o non esserci mai stati, e il silenzio sarebbe lì comunque. Quindi sì, il silenzio è fondamentale, ma non lo ricorda più nessuno – forse se lo ricorda Cosimo Peragalli, che però in questo non sembra esattamente un nostro contemporaneo.
Nel periodo storico che viviamo, secondo te, riusciamo a considerare l’attesa come un valore nel proprio percorso esistenziale?
Dovrebbe esserlo, e dovremmo ricordarcelo. Saper attendere senza smaniare, lasciare tempo alle cose, regolare il proprio respiro, rallentare i gesti, pensare e costruire scenari possibili da affrontare senza lasciarsi sopraffare dall’angoscia… Tornare a una dimensione meno tecnologica e più biologica. Guarda gli animali: sanno aspettare, passano gran parte della loro vita ad aspettare (di attaccare o di essere attaccati, l’occasione giusta, i grandi eventi stagionali, il ritorno di qualcuno…). Anche i bambini, almeno quelli di una volta, sanno aspettare, giocano con l’inerzia, sanno annoiarsi nel modo giusto, sempre che genitori apprensivi e superficiali non corrano a mettere loro in mano un giochino elettronico. Quella degli animali e dei bambini non è una vita sprecata o vissuta meno intensamente, né più passiva. Cioè, le vite sono tutte passive, in gran misura, ma viverle precipitandosi addosso agli eventi non le rende certo più nostre. L’attesa come la intendo io non è una strategia, non ha a che fare con i meccanismi della suspense: è piuttosto una condizione che consente la dilatazione, l’estensione dei sensi e dà tempo alla riflessione. La letteratura educa all’attesa? Potrebbe farlo – lo ha fatto, in passato: leggere i classici antichi e moderni significa adattarsi a tempi di attesa che non ci sono più familiari e che secondo me è un peccato non perseguire più. Ne usciamo esasperati, stremati ma un po’ più ricchi.
Per concludere, consigliaci la lettura di un libro di una scrittrice e anche di uno scrittore.
No, cara, non consiglio libri perché non saprei da dove cominciare e quando smetterla: consiglio piuttosto di entrare in una biblioteca o in una libreria e di cercarseli, i libri, magari tra quelli un po’ nascosti, di aprirli e leggerne qualche riga, di assaggiarli. Ci sono libri che in due mesi invecchiano e diventano immangiabili, altri che resistono per secoli, e anzi invecchiando migliorano. Ci sono quelli che aspettavamo da una vita ed eccoli, ci capitano tra le mani per caso, un pomeriggio. Non badate alla trama, non fidatevi della fama o del chiacchiericcio attorno al libro, né dell’aria di scandalo, né del divertimento assicurato. Andate oltre la logica del blurb. Un libro non è un telefilm, e tantomeno un luna park (non lo è nemmeno la montagna, ma questo è un altro discorso).
(A cura di Giovanna Pietrini, Mi viene da leggere)