A MODO SUO, cioè a tessere di mosaico, l’ultimo romanzo di Morandini è la storia di una vita, quella di Cosimo Peragalli, ennesimo personaggio morandiniano (ebbene sì, il nostro ha diritto all’aggettivo) che faticheremo a dimenticare (come il ben noto loner Adelmo Parandola). Si può infatti affermare che la prima parte del romanzo, “Capsula del tempo”, è una serie di sketch raffiguranti in modo vivido e stralunato l’infanzia, con tutti i suoi strani ragionamenti e le sue curiose convinzioni; e un po’ siamo dalle parti del Mari di Tu, sanguinosa infanzia, ma in tono più di commedia grottesca. Qui si forma, in una famiglia che vive in un’indeterminata località di montagna, ìl Peragalli Cosimo, fanciullo sovrappeso, bravo bambino per calcolo, aspirante pianista (ma troppo grasso per diventarlo, come gli spiega la mamma). E il tono di commedia all’italiana non impedisce spiazzanti intuizioni sulla vita di questa famiglia anni Sessanta (non si dice mai, ma tanti indizi fanno pensare che in quel decennio si situino i fatti narrati). Segue “Il delta”. E qui la prima discontinuità: Cosimo ha abbandonato le montagne (in Morandini mai luoghi di estasi natural-ambientalista) per andarsi a piazzare nel Delta, supponiamo del Po. Ora è un insegnante, nonché poeta, e bisogna notare che per la prima volta l’autore, di mestiere effettivamente è un docente, scrive delle sue esperienze nelle aule, pur proiettandole sul suo personaggio — e che ci sia del vissuto impastato con l’invenzione non ho il minimo dubbio: troppo colte bene certe sensazioni, anche corporee, che ben conosce chi abbia lavorato nelle scuole. Ma per portarci qui tra i canneti e la melma del grande fiume, Morandini ha saltato gli anni d’università del Peragalli, tutta una fase della sua vita; in compenso ci regala qualche idillio in sala professori se non negli sgabuzzini scolastici — piuttosto convincenti. E si sconfina nel fantastico con il capitolo dedicato alla gente che passa le notti sui tetti (un episodio che mi ha ricordato il Calvino delle Cosmicomiche, ma versione valdostana). Ancora un salto: nella parte terza, “I sangui,” Cosimo torna al paesello sulle Alpi. Ritrova la sua famiglia invecchiata e in parte infervorata di devozione cattolica, ritratta con quasi illuministica ironia. Anche se emigrato, Cosimo non è mai riuscito del tutto a staccarsi dalla sua famiglia (e chi ci riesce, in Italia? Siamo mica negli Stati Uniti…), e qui, forse inevitabilmente, si scivola nel gotico, specie nel capitolo intitolato “Le cose”, che, come accade nel miglior horror, crea un ambiente da incubo amplificando e materializzando stati d’animo assolutamente reali. Però tutto viene rimesso in discussione dall’ultimissima parte, la più breve, “Ida”. Non oso descriverla più di tanto, ma è una sorta di risveglio che tutto mette in prospettiva, fornendo una chiave di lettura per ciò che l’ha preceduta; si scopre il potenziale letterario della miodesopsia (e anche questa parola proprio non è lecito spiegarla in una recensione). Mi preme evidenziare comunque, per chiudere, i ringraziamenti finali. Una volta queste appendici non appartenevano alla nostra tradizione letteraria, e sono state importate a imitazione degli scrittori americani, che ne fanno un uso per così dire “professionale” — un modo per omaggiare qualcuno che ha dato una mano nella stesura del romanzo e potrà ancora darla in futuro. (Nota bene, da quelle parti c’è pure chi ne fa a meno, come l’impenetrabile Thomas Pynchon.) Ma Morandini trasforma questo rituale sociale in un atto di lodevole onestà scrittoriale: rivela che vari capitoli del libro erano usciti come racconti su diverse riviste, dal 2010 a oggi. Allora risalta l’abilità dello scrittore di integrarli in una storia, senza però voler stirare troppo le pieghe, senza voler far tornare troppo i conti, senza far sparire del tutto le peculiarità dei vari pezzi: di qui nasce la discontinuità, l’episodicità della struttura del Catalogo, e trae la sua ragion d’essere la scelta di presentarlo, come, per l’appunto, un catalogo. Perché questo è l’autentico Catalogo Morandini 2022, dove lo scrittore ci fa vedere campioni di tutta la sua mercanzia. Ma c’è anche qualche novità. Se il suo gotico valdostano già lo si conosce (vedi lo sfigatissimo paesotto di Crottarda ne Gli oscillanti, e andando più indietro la ragnatela famigliare di Le larve); se la sua propensione per la commedia amarognola già l’avevamo apprezzata in A gran giornate e Neve, cane, piede, e prima ancora ne Il sangue del tiranno), se il suo gusto per il grottesco allucinatorio ci è ben noto dai tempi di Le pietre, stavolta esce fuori una vena autobiografica — per quanto trasfigurata — che è un po’ una novità nel repertorio del nostro. Vena che intuisco farsi veramente forte proprio nell’ultimissimo capitolo, e cui chiudo perché si sa che gli spoiler non vanno di moda. E chissà che il prossimo romanzo di Morandini non inizi con la frase “Chiamatemi Peragalli”.

(Umberto Rossi, Blow Up n. 288, maggio 2022)

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