VOLUME 98-2-Summer 2021
Intervista a Claudio Morandini, autore del romanzo Neve, cane, piede
PATRIZIO CECCAGNOLI
University of Kansas
Intervista: 5 giugno 2018
Abstract: Questa intervista al romanziere italiano Claudio Morandini è incentrata su quella che, con ogni verosimiglianza, è a tuttora la sua opera di maggior successo, sia di critica che di pubblico, il romanzo Neve, cane, piede, recentemente ristampato in una versione accresciuta di nuovi capitoli presso l’editore Bompiani. Vincitore del premio Procida-Isola di Arturo- Elsa Morante nel 2016, il romanzo di Morandini si presenta come un’originale riflessione sul tema del rapporto tra uomo e ambiente, inserendosi in una lunga e nobile tradizione che è stata chiamata la “letteratura di montagna”. Tra gli altri temi, Morandini affronta la questione del suo legame con l’opera di Dino Buzzati e con la letteratura svizzera, in particolare i romanzi di Charles-Ferdinand Ramuz e Max Frisch. Pur negando una deliberata volontà di inserirsi apertamente in un filone della letteratura legato a temi ambientali in chiave ecologista o animalista, l’autore ribadisce l’importanza del personaggio del cane, che rappresenta un “ibrido tra stato di natura e civiltà”.
“Tornerò a parlare molto volentieri di quello strano, amabile personaggio da commedia che è il cane.” Claudio Morandini
VOLUME 98-2-Summer 2021
Nota introduttiva
In occasione della ristampa del fortunato romanzo italiano Neve, cane, piede di Claudio Morandini, scrittore italiano e docente nato ad Aosta nel 1960, si pubblica di seguito un’intervista conclusasi attraverso uno scambio mediante posta elettronica il 5 giugno 2018. Neve, cane, piede è il sesto libro di Morandini, uscito originariamente nel 2015 e riproposto in forma riveduta e ampliata presso Bompiani nel giugno del 2021. Opera originale e inquietante che indaga il rapporto tra uomo e natura in un contesto alpino risonante di echi letterari e di un’esperienza diretta della montagna, Neve, cane, piede è presto diventato in Italia un caso letterario e un best-seller. Il romanzo è stato tradotto in varie lingue tra cui il francese, lo spagnolo e il turco. L’edizione inglese (Snow, Dog, Foot) è uscita in Gran Bretagna nel 2019 presso l’editore londinese Peirene Press con la traduzione di J Ockenden.
CECCAGNOLI: Partiamo dal bellissimo tricolon del titolo, Neve, cane, piede. Si potrebbe riassumere il romanzo come una traiettoria che va dal soliloquio della solitudine nella neve attraverso la personificazione dialogica del cane fino alla prosopopea finale del cadavere che si rivela a partire dal piede. Vorrebbe parlare di più di questi elementi della storia?
MORANDINI: Il titolo enumera i tre ingredienti principali del romanzo, che volevo fosse costituito appunto di pochi, essenziali elementi. Le tre parole rimandano anche ai tre tempi della storia, che ha una struttura diciamo stagionale: basta invertire l’ordine di “cane” e “neve” e ci troviamo davanti proprio alla scansione temporale fatta di autunno, inverno e primavera (quest’ordine cronologico è stato ristabilito nel titolo dell’edizione francese, Le chien, la neige, un pied). Però (e qui sta il bello del tricolon, se preso nell’ordine in cui si presenta) la neve è anche la condizione di partenza di solitudine e abbandono, il cane è la scoperta del conforto dato dalla vicinanza con qualcuno e dal dialogo, il piede è la sostituzione di un interlocutore con un altro, il cadavere appunto. Lo spunto iniziale, quello da cui pian piano si è sviluppata tutta la storia, era costituito proprio da questo: un piede che spunta dalla neve, un cane accanto a un uomo che osserva e non sa bene cosa fare; attorno, il nulla.
CECCAGNOLI: Il suo romanzo breve si colloca nella tradizione che potremmo chiamare letteratura della montagna, tornata alla ribalta in Italia con il premio Strega 2017 e che Lei ha indicato come un riferimento esplicito nella parte conclusiva dell’opera in cui ricorda Ramuz, alludendo anche a Frisch.
MORANDINI: Sì, è così. All’inizio (parlo del 2011, l’anno in cui ho cominciato a scrivere Neve, cane, piede) la mia intenzione era proprio di scrivere un romanzo “svizzero”, cioè à la Ramuz (un autore che ho sempre amato, sin da quando l’ho scoperto grazie a certe opere vocali di Stravinskij). Mi interessava proprio la dimensione periferica, chiusa, angusta, raccontata dalla narrativa svizzera meno indulgente (evitando quindi i toni e le atmosfere alla Johanna Spyri). Da Ramuz sono poi passato ad altri narratori svizzeri di lingua francese, come Chessex o Corinna Bille, o romancia, come Peer, Tuor e Camenisch, o italiana, come Giovanni Orelli, o appunto a Frisch. Credo di avere riconosciuto in tutti questi autori comunque molto diversi uno sguardo sulle cose che è anche il mio: un’insofferenza per i toni pastello e le convenzioni, un’incontentabilità nella ricerca dei dettagli, un mettere a fuoco certi dettagli, quelli meno ovvi, e un lasciare flou altri particolari, un senso del mistero e del fantastico che non è in contraddizione con l’approccio realistico… Negli svizzeri ho cercato e trovato soprattutto una lingua aspra, che non suonasse genericamente poetica, bucolica, arcadica. La loro è concretezza materica, non realismo melenso. Non c’è mitizzazione, non vi è addomesticamento, nessuna compiacenza. C’è uno sguardo critico, esigente.
Nel 2011 (ma ancora nel 2015, l’anno in cui Neve, cane, piede è stato pubblicato) la montagna nell’editoria in Italia non era ancora tornata di moda. Mi attirava proprio questa assenza di trend. Ora che la montagna (ma per quanto ancora?) è tornata à la page, mi trovo con diverse storie alpine da raccontare, e che racconterò tutte, un po’ alla volta. Spero che si senta che quella che racconto è la “mia” montagna, non la montagna mainstream, e soprattutto non è quella riconoscibile o percorribile nella realtà. Mi affascinano le guide turistiche, ma non mi interessa scriverle, esattamente come ammiro il linguaggio fiorito e elegante dei sommelier, ma resto convintamente astemio.
CECCAGNOLI: Il suo stile limpido e la grande attenzione per il dettaglio insieme ad una certa vaghezza di fondo ricordano lo stile di Buzzati. Vi accomuna anche l’interesse per il fantastico. Senza considerare il gran ruolo svolto dagli animali nella narrativa kafkiana, per evitare un confronto che fu una croce per Buzzati stesso. È d’accordo?
MORANDINI: Buzzati è uno degli autori che, divorati da ragazzini, si sedimentano da qualche parte, e da lì ogni tanto riemergono. Non l’ho più letto per decenni, poi di colpo, dopo ingozzate di altri autori del fantastico stilisticamente molto più spinti come Landolfi, mi è tornato tra le mani. Prediligo il Buzzati ossessivo di Un amore, o l’esperimento di fantascienza de Il grande ritratto, che oggi suona deliziosamente vintage. In generale, mi sento più vicino alle sue pagine più realistiche, metropolitane, perché in quelle il senso del mistero si insinua subdolamente, senza assumere per forza fattezze leggendarie o valenze simboliche: rimane puro, indecifrabile mistero (è La goccia del racconto).
Quanto a Kafka, che dire? C’è del Kafka in ognuno di noi, che lo vogliamo o no. Siamo ancora suoi nipotini.
CECCAGNOLI: Molto interessante è soprattutto il riferimento indiretto ad una vera fonte dell’opera, il romanzo breve dello scrittore svizzero Max Frisch, L’uomo nell’Olocene (1979), per molti l’epoca geologica più recente e nella quale noi stessi viviamo, nonostante ci sia chi propone una nuova definizione per l’epoca attuale, quella di antropocene. Il libro, scritto in tedesco, è esso stesso, se vogliamo, un attacco all’antropocentrismo e una riflessione sulla relativa importanza della vita dell’essere umano, in altre parole, sui limiti umani. Esposto al ciclo della vita, a catastrofi ambientali (un’alluvione) e alla propria mortalità, il protagonista, il Signor Geiser, riflette sull’insignificanza della vita e della conoscenza umana. Anche Geiser come Farandola vive come un recluso, nel Ticinese, in compagnia di un animale, un gatto. Anche Geiser come Farandola ha problemi di memoria. Mi vuole dire un po’ di più delle sue letture e dei suoi modelli, non solo in riferimento al suo penultimo lavoro?
MORANDINI: Avere dei modelli è fondamentale: riconoscersi in un flusso, quello della letteratura, avere cioè una percezione della dimensione verticale della tradizione letteraria è vitale per chi scrive, secondo me. Altrimenti ci si appiattisce su un presente fatto di riferimenti scontati e inopportuni, magari cinematografici o televisivi, o su modelli di seconda, terza mano. I modelli, poi, li si può strapazzare, ci si può fare a pugni: ma bisogna comunque partire da quelli, farci i conti, misurarcisi.
Per dire: non posso scrivere senza avvertire l’influsso di quanto è accaduto nell’ambito della riflessione letteraria e critica nell’ultimo secolo. Nei personaggi che si animano nelle mie pagine, per esempio, si può avvertire (io lo avverto chiaramente) lo strascico di quella dissoluzione del personaggio inteso in senso tradizionale che ha profondamente trasformato la narrativa più consapevole e disposta alla ricerca di nuove soluzioni. Anche se finisco per “affezionarmi” ingenuamente ai miei personaggi, al punto di rimpiangerli alla fine di un libro e sperare di poterli ritrovare in occasioni successive, sento che il mio rapporto con loro non è e non può essere quello di una volta. Per questo i miei personaggi rimangono figure sfuggenti, ambigue, e nascondono più di quanto rivelino; per questo ciò che dicono sembra deviare sempre dall’argomento, e i loro gesti risultano spesso incomprensibili. Per questo non sappiamo di loro quanto vorremmo.
Da qui nasce quell’atteggiamento distaccato, distante che qualcuno mi ha rimproverato, e che in Neve, cane, piede si traduce in questa volonterosa voce narrante che fatica star dietro alle mosse di Adelmo, che può solo ipotizzare quel che gli passa per la testa, e che si rassegna a raccontare i gesti e qualche confuso pensiero senza riuscire a connetterli a un senso. Nei confronti dei personaggi pratico il distacco, anche l’ironia, anche la diffidenza, se occorre; e trovo giusto praticare tutto questo anche nei confronti di me stesso, tenendomi ben lontano da ciò che racconto, misurandomi con ciò che mi è alieno, reprimendo la tentazione di guardare dentro di me invece che fuori, lontano da me.
Le pietre presenta una situazione differente, la voce è un “noi” collettivo, in cui si mescolano le diverse individualità della storia – ma anche qui, chi racconta che cosa? e fino a che punto gli possiamo credere? e perché tutto quel parlare non arriva ad alcuna conclusione certa, a nessuna spiegazione attendibile?
Quello che ho detto dei personaggi potrei dirlo degli spazi e dei tempi. Non posso – non voglio – muovermi in spazi determinati, secondo tempistiche definite. Non mi interessa una narrativa puramente, piattamente mimetica, riproduttiva. È troppo facile, consolatorio – oltre che un inganno bell’e buono. Gli ambienti che racconto o descrivo finiscono così per assomigliare ad anamorfosi, le distanze mutano secondo il punto di osservazione. Ad anamorfosi, o a sogni: i sogni migliori, quelli più profondi e meno derivativi, sono delle cose davvero d’avanguardia.
(…)
CECCAGNOLI: E potrebbe esplicitare, più in dettaglio, quale sia stato il ruolo ispiratore dell’attore anglosassone Chaplin?
MORANDINI: Tutto quello che succede nella capanna tra le nevi de La febbre dell’oro deve avere agito a mia insaputa nella elaborazione di diverse scene invernali nella baita di Neve, cane, piede. Nel caso del film di Chaplin, il ruolo più vicino a quello che assumerà Adelmo Farandola è quello di Big Jim, l’amicone di Charlot: più stolido, più soggetto alle allucinazioni e allo stesso tempo meno fantasioso, meno capace di trattenersi, insegue attorno al tavolo il compagno perché lo crede un pollo, però quando Charlot cucina la famosa scarpa rimane perplesso e scontento perché non ha la facoltà immaginativa dell’altro. Ecco, il cane del mio racconto è più simile a Charlot, anche nelle paure che nutre e nell’atteggiamento più disponibile e civile.
Intendiamoci, non volevo “citare” La febbre dell’oro (detesto le citazioni, gli ammiccamenti da cinefili, mi sembrano sintomi di una specie di malattia infantile della letteratura, o peggio ancora segni di una comoda resa della letteratura al cinema): sono tutte immagini depositate in me da quando ero bambino, assieme a romanzi, telefilm, illustrazioni, musiche, che continuano a lavorare senza che me ne accorga, e ogni tanto riemergono, suggeriscono, senza rivelarsi del tutto.
Per Le pietre, il riferimento cinematografico è stato piuttosto Buster Keaton, in particolare la scena di Seven Chances in cui il protagonista, fuggendo da un’orda di fidanzate, finisce su un pendio in cui continua a essere inseguito da pietre sempre più grandi e numerose. Sono tutte scene di grande dinamismo, in cui la parola non serve, in cui dominano il paradosso, l’iperbole, l’incongruo, e di fronte alle quali lo spettatore non sa se ridere e inquietarsi. Qui sta forse la ragione per cui continuano ad agire dentro di me. Per me quelle scene mute e movimentate (a cui aggiungo anche il cinema di Tati) sono il complemento delle scene parlate, anzi chiacchierate di autori come Achille Campanile.
CECCAGNOLI: Nel 1999, il noto autore newyorkese, Paul Auster pubblicò il romanzo Timbuktu, di cui le ho parlato, in cui il cane, Mr. Bones, è il vero protagonista dell’opera. Paul Auster si pone un problema di verosimiglianza, che invece nel suo caso è aggirato dalle condizioni di salute di Farandola, dal suo stato mentale. Pur non potendo parlare, Mr. Bones capisce la lingua degli uomini, comprende ciò che l’autore chiama “Ingloosh”, come fosse un recente immigrato. Il suo vero problema, dopo la morte del padrone, è quello di non saper leggere. Per l’aldilà Mr. Bones si augura che, dopo aver tirato le cuoia, esseri umani e cani non siano separati dalla morte. Il “Signor Ossi” inoltre spera che a Timbuctu i cani siano in grado di parlare il linguaggio degli uomini e di conversare con loro da pari a pari. Conosce l’opera di Auster e questo romanzo in particolare?
MORANDINI: Lo confesso: non avevo ancora letto Timbuktu, lo sto facendo in questi giorni grazie al suo suggerimento. Mi piacciono il turbinio di odori che invade il romanzo, la spiccata intuitività del cane, la sua intelligenza empatica. Non so se i cani (e gli esseri umani) possano intendersi davvero così a fondo nella realtà, e se ai cani sia concessa una tale profondità di pensiero e di astrazione, una tale capacità di registrazione e memorizzazione, ma che importa? Siamo in un romanzo, è giusto che vengano concesse deroghe alla verosimiglianza. Il narratore è esterno (ecco qualcosa che ci accomuna, si parva licet componere magnis), non è il cane a rimuginare in prima persona, questo sì avrebbe reso artificioso e macchinoso il tutto.
Forse, almeno dal punto di vista di un lettore umano, la prima persona è più adatta a un gatto, come in Io sono un gatto di Natsume Sōseki. Ma sto divagando.
Il romanzo di Auster mi fa tornare in mente un racconto rimasto incompiuto di Italo Svevo, Argo e il suo padrone, che Giuseppe A. Samonà ha rievocato in una recensione di Le chien, la neige, un pied apparsa sulla rivista canadese “Viceversa”. Nel racconto, è il cane che racconta in prima persona (o meglio: nella cornice, che si dimentica presto, è l’uomo che, dopo avere tentato di insegnare l’uso della parola e le lingue al cane, passa a trascriverne i presumibili pensieri). La comicità sta nel continuo, reciproco fraintendimento: l’animale, credendo di ben interpretare gli ordini o le intenzioni del padrone, compie azioni riprorevoli o assurde; il padrone non è nemmeno in grado di intercettare la bontà d’animo e la disponibilità della bestia. Argo è un prodigioso, meticoloso gaffeur, come tutti i cani di carattere: attraverso la loro goffaggine volenterosa e disastrosa riconosciamo la nostra nei loro confronti.
C’è sempre, in Auster come in Svevo, un problema di comunicazione, di codici linguistici condivisi malamente o parzialmente. Avere un cane o un animale domestico, o raccontarne, attiva in noi questa consapevolezza più immediatamente, direttamente e universalmente che, che so, una pièce di teatro dell’assurdo o un’assemblea di condominio. In ogni caso Mr Bones e Willy mi pare abbiano risolto il problema della comunicazione con grande disinvoltura, senza sforzi, al punto che non fingono o si illudono di intendersi, si capiscono davvero.
Peccato che tutto questo si annacqui e finisca per perdere molto del suo senso nella produzione narrativa più corriva, nei libri seriali su cani speciali e vivaci e gattini buffi e adorabili che intasano – almeno in Italia – certi settori delle librerie, tutti così antropomorfi e rassicuranti, anche quando combinano guai.
CECCAGNOLI: Alla fine di Neve, cane, piede in “Storia di questa storia” parlando della sfida delle Alpi, Lei scrive così: «Epos pungente e ferino, di poche parole, di pochi gesti ripetuti, di fatica e di sole a picco e tenebre improvvise, gelate e pantani, lotta quotidiana con le bestie e le pietre». Se delle pietre, molto vivaci, sono protagoniste del suo ultimo romanzo, nel penultimo una bestia loquace è il simpatico deuteragonista ferino. Nella nostra chat, Lei mi ha scritto: «Tornerò a parlare molto volentieri di quello strano, amabile personaggio da commedia che è il cane». In un’intervista disponibile su YouTube con Andrea Pennywise, Lei sottolinea il ruolo comico del cane, da sidekick, da spalla comica appunto. Inserisce l’uso del cane parlante nella tradizione delle favole e parla di un fantastico senza valore simbolico, di una liberatoria deriva dell’immaginazione. Vuol tornare su questi argomenti e sulla funzione del cane nel suo romanzo?
MORANDINI: Il cane – il mio cane – è entrato nel romanzo di soppiatto. Come ho confidato altre volte, il personaggio del cane si è creato uno spazio via via più ampio e significativo nel romanzo, fino a diventare la figura più dialogante e affabile, quella che invita Adelmo Farandola a riscoprire il piacere del dialogo, a misurarsi di nuovo con la fatica della parola. Non era previsto che si mettesse a parlare: ma a un certo punto lo fa, con una certa naturalezza, e con naturalezza equivalente Adelmo sta al gioco, risponde, interagisce. Sarebbe stato un racconto ben strano, un insopportabile balbettante rimuginio, se avessi affidato la storia alla sola voce di Adelmo. Il cane umanizza il racconto, nel senso che aiuta Adelmo a ritrovare la sua componente umana, sociale, e a mettere insieme un po’ della memoria che sta sfuggendo; allo stesso tempo, però, rimane cane, ha pensieri e moti da cane, parla di quello che può interessare a un cane, anche se – per effetto dell’uso della parola – a volte sembra filosofeggiare (ma la sua, diciamocelo, è filosofia spicciola, nutrita di esperienza pratica). A volte l’ho definito, semplificando troppo, una spalla, per sottolineare il suo ruolo da commedia; in realtà il cane è qualcosa di più, perché non si limita a invitare l’altro, il protagonista umano, alla battuta, ma è esso stesso un buon battutista di suo, dotato di un senso apprezzabile dei tempi comici, di un’eloquenza disinvolta che Adelmo non ha mai posseduto.
Che il cane sia parlante in quanto personaggio da fiaba o da favola (contesto in cui è ovvio che gli animali si esprimano verbalmente) o che le sue parole siano in realtà frutto delle allucinazioni di Adelmo, non è chiaro, e non deve esserlo, naturalmente. Anche qui, l’ambiguità è cercata, perché la ritengo fertile. Quel rozzo di Adelmo potrebbe immaginare un eloquio così disinvolto come quello attribuito al cane? D’altra parte, nei sogni anche noi immaginiamo di scrivere partiture di complessa, ardua bellezza, che però non sapremmo mai ricostruire da svegli. Ci possiamo anche chiedere – qualcuno lo ha fatto – se non solo la loquela del cane, ma il cane stesso sia frutto della demenza delirante di Adelmo, sia una sorta di suo sdoppiamento, anche se rispondere a questa domanda non è davvero importante.
Certo, il retrogusto da fiaba è avvertibile ogni volta che il cane entra in scena; allo stesso tempo, procedendo nella stesura del racconto, sentivo che l’attrito tra l’ambientazione alpina, di solito trattata con serietà, con solennità e senso del dramma, e la leggerezza dei toni da commedia era feconda, faceva risuonare in modo nuovo temi e situazioni molto antichi. Grazie all’inserimento del cane ho potuto indulgere anche al piacere dell’improvvisazione, alla “deriva dell’immaginazione”, appunto. Che importa se non accade nulla, quando il carattere brillante del cane e la sua verve comica riempiono i vuoti, tolgono staticità, vivacizzano con le parole?
CECCAGNOLI: Ha mai pensato di assegnargli un nome o nella sua immaginazione il cane doveva rimanere anonimo, forse a sottolineare quella relazione ferina, quella dimensione materica e schiacciante della vita in montagna dove la natura sembra ancora suggerire un’idea di sublime?
MORANDINI: All’inizio, quando comincio a scrivere, nessun personaggio ha un nome: sono X, Y, Z, oppure “il vecchio”, “l’uomo che non parla”, “il cane”. Alcuni, dopo un po’, assumono un nome, che spesso cambia nel corso delle stesure (così è stato per Adelmo Farandola, o per la maggior parte dei personaggi de Le pietre). Altri rimangono senza. Per il cane è stato così. Diciamo che non aveva bisogno di un nome: Adelmo Farandola non sembra il tipo disposto a dare nomi a un cane; e il cane è già dotato di una personalità sua, ben riconoscibile, spiccata, non sta perdendo coscienza di sé come il vecchio che lo ospita, non ha cioè bisogno di un nome che gli ricordi ossessivamente chi è, chi è stato, chi è per gli altri. Il cane, semplicemente, è il cane.
CECCAGNOLI: C’è infine una dimensione non dico ecologista o animalista ma parzialmente, forse inconsciamente, anti-antropocentrica in questa voce canina che fa da spalla nobile alla follia dell’uomo?
MORANDINI: Di sicuro non è voluta, ma è la benvenuta.
In realtà il cane di montagna lo vedo come un ibrido tra stato di natura e civiltà: è stato addestrato a tenere a bada le vacche o le greggi nei pascoli, ha un rapporto molto stretto con gli uomini, è attentissimo ai segnali dei suoi padroni, esegue, quando è ben educato, compiti non facili con grande intuito. Il cane del mio racconto è stato pastore, e ricorda (in una scena che è anche, ma non solo, la parodia di tanti quadretti bucolici alpini) con nostalgia i bei tempi di quando faceva rigare dritto l’armento. A volte sembra combattuto tra il mantenimento di una certa etichetta nei comportamenti, e il richiamo imperioso della natura: quando vince quest’ultimo parte dietro odori e tracce, dimenticando ogni altra cosa, per tornare dopo ore o giorni.
L’atteggiamento ancipite del nostro cane credo sia ben riassunto in una delle battute migliori del romanzo, pronunciata quando dall’esterno della capanna (sommersa da metri di neve) giungono rumori preoccupanti: «Io d’istinto abbaierei», dove il condizionale corregge e anzi contraddice la locuzione avverbiale. Nel distinguere i due momenti, cioè abbandono allo stato di natura e condizione di autocontrollo, il cane è di sicuro più bravo del vecchio che lo ospita.
CECCAGNOLI: Benché Lei abbia dichiarato di non essere un alpinista, l’ambientazione alpina pare avere una chiara ispirazione autobiografica, esplicitata da Lei stesso.
MORANDINI: Vivendo in una piccola città incassata tra le Alpi, mi è difficile prescindere dalla montagna. Sono riuscito a tenerla lontana dai miei paesaggi narrativi fino al sesto romanzo; Neve, cane, piede era finalmente l’occasione giusta per affrontarla. Conosco la montagna per convivenza. Non ho avuto bisogno di fingermi montanaro (sono rimasto in città), non ho sperimentato di persona gli stenti e le fatiche di una vita in condizioni estreme (non credo sia necessario entrare in questo tipo di immedesimazione sul campo, che anzi può diventare fuorviante e non fare del bene alla letteratura). Modeste passeggiate, osservazione, qualche appunto, ricorso alla memoria, registrazione di sogni (sogni di montagna), immaginazione, ascolti (e le letture giuste) hanno costituito la base della mia documentazione.
CECCAGNOLI: Nella genesi del personaggio del cane è intervenuto nulla di simile? Auster ad esempio parlò dell’adozione di un cane per la figlia avvenuta proprio negli anni in cui concepiva il suo romanzo. Lei ha un cane?
MORANDINI: Be’, non è stato difficile raccontare di un cane: per diversi anni ho avuto modo di osservare un cane proprio in casa nostra. Era uno schnauzer gigante meticcio, femmina, che avevamo preso in canile, una creatura dagli appetiti prodigiosi, dalle paure indecifrabili. Era misteriosa e limpida, elementare e complessa allo stesso tempo. Ragionava, se così si può dire, da cane, e si aspettava da noi indulgenza di fronte alle sue pulsioni. Quando esagerava si aspettava di essere punita, ma aveva l’espressione folle di chi riteneva che ne fosse valsa comunque la pena. In un certo senso, vederla cogliere del mondo aspetti che io trascuravo o non potevo percepire – gli odori, in particolare, le tracce olfattive; ma anche certi suoni per me insignificanti – mi ha aiutato a capire una cosa fondamentale: che scrivere è anche farsi bestia, esercitare tutti i sensi, anche e soprattutto quelli più negletti, muoversi a testa bassa dietro alle tracce, esplorare, rovistare, scavare, grufolare, trattare alla pari ogni parte del corpo, anzi considerare tutto corpo.
Forse è anche per questo che la montagna che racconto (non solo in Neve, cane, piede) è vista dal basso, è vissuta rasoterra, anzi è spesso scavata, ci si sprofonda, invece di salirci.
Non c’è solo questo: Agnese – così l’avevamo chiamata, con un nome umano, ammodo – era buffa. Non solo suscitava simpatia, ma faceva proprio ridere, per la sua goffaggine – ed era goffa non quando si comportava da cane, ma quando si atteggiava secondo il galateo imparato durante i corsi di obbedienza o di agility, quando tentava di imbrigliare, senza mai riuscirci davvero, le sue pulsioni dentro una rete di comportamenti controllati. Era poi incredibilmente comica – ma anche spaventosa – diciamo rabelaisiana, per tutto quello che riguardava il cibo. Avrei da parte aneddoti per un’intera serata, sui suoi sotterfugi per raggiungere le scorte di cibo, ingozzarsi a nostra insaputa delle porzioni di un’intera settimana e poi reclamare ancora la cena, come niente fosse.
(Intervista a cura di Patrizio Ceccagnoli, University of Kansas; ITALICA, vol. 98-2-Summer 2021)