La conca buia: la natura barbarica e crudele si fa spettacolo

Gli spazi naturali, ne La conca buia (2023) di Claudio Morandini, assumono una doppia valenza: una crudele, barbarica, legata ad un arcaico paesaggio rurale e montano e una, invece, finta, posticcia, artefatta e costruita ad arte soltanto per inseguire tornaconti personali ed economici. Sfondo principale della storia, come in molti altri romanzi dello scrittore aostano, è la montagna, la quale, nella sua autenticità, assume connotazioni ostili e ‘realistiche’. Morandini non racconta di una montagna idealizzata, fatta di boschi perfetti e di passeggiate, di sentieri e di comodi rifugi per turisti. Nelle sue pagine emerge una montagna vera, scevra di travestimenti estetici o poetici. Come già ne Gli oscillanti (2019), in cui una giovane cittadina studiosa di etnomusicologia entrava in contatto con l’ambiente rude ed ostile di un paesino di montagna, lo scrittore mette in scena questa doppia valenza della natura costruendo, per mezzo di una scrittura limpida e sapiente, una dicotomia fondamentale: quella fra città e montagna.
Il sindaco Franco Gavaglià, che sta allestendo la campagna elettorale per la sua rielezione nel comune di montagna che gli ha dato i natali, all’interno del racconto è il rappresentante perfetto – pur avendo trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza nell’ambiente contadino della montagna – dello spazio cittadino e della concezione di una natura finta ed artefatta, piegata agli interessi del consumo e del tornaconto economico e politico. Emblema dell’universo agreste e montano, crudele e barbarico, è invece il suo vecchio padre, che egli ha scelto di condurre con sé durante la sua campagna elettorale. Gavaglià infatti è obeso e infiacchito, un ‘cittadino’ che non riesce a percorrere pochi metri a piedi senza stancarsi e sudare. Il padre, un anziano asciutto e dedito alla vita dura e semplice della montagna, è invece la figura perfetta per piacere a tanti potenziali elettori montanari. Ma Gavaglià non è certo un montanaro attaccato alla sua terra, è soltanto un politico che vuole sfruttare l’immagine del padre per il suo tornaconto personale, mettendo in mostra, in una dimensione falsa e spettacolare, un vecchio uomo di montagna autenticamente legato a quei luoghi. Ma, come già accennato, il vecchio Gavaglià non è sinonimo di idillio agreste: è invece esponente di un universo crudele e barbarico, una montagna costruita su una violenta realtà. Il padre, infatti, non ha mai esitato a picchiare la moglie e il piccolo Franco, a offenderli brutalmente, a usare violenze sugli stessi animali, siano vacche, pecore, cani o gatti. È un mondo brutale, realistico all’ennesimo grado, come quegli interstizi osceni e brutali che vediamo emergere dalla rivalità fra i due paesi che Morandini ci aveva raccontato ne Gli oscillanti.
Emblema della natura più ostile ed arcaica è la “conca buia” che dà il titolo al libro, un lembo di prato fra le montagne perennemente all’ombra e al freddo, uno spaccato di un mondo rurale che non ha niente a che spartire con l’immagine artefatta che ne hanno i cittadini. Ed eccoli, i cittadini, descritti sotto le vesti di “turisti” che percorrono le montagne e i paesi, sempre frettolosi, sempre intenti a parlare a voce alta: “Li abbiamo notati, acconciati come per un’ascensione su una cima himalaiana, aggirarsi nel borgo. I loro vestiti tecnici, sgargianti, gli occhiali da nevaio, gli scarponi da sentiero ferrato, le racchette, li rendevano incongrui tra le botteghe del centro turistico, dove avrebbero acquistato a un prezzo esagerato oggettini purchessia da rifilare ai parenti rimasti nell’afa della metropoli” (p. 181). D’altra parte, lo stesso Gavaglià esprime al padre delle idee e delle “fantasticherie” su “come trasformare i nostri pascoli”: costruzione di centri benessere e termali pieni di turisti seminudi che sudano “e poi villaggi vacanze, palazzine, alberghi metà sul rustico metà sull’ipermoderno, ovunque bambini che corrono e strillano, seguiti da madri e baby-sitter che strillano anche di più, e più in là piste da sci, di pattinaggio su ghiaccio, di pattinaggio su pista, di bob, impianti di risalita, impianti per l’innevamento artificiale, tapis roulant, piste per gli skate, piste per aerei da turismo e per elicotteri, tunnel per andare al di là (c’è sempre un di là), grotte artificiali con la riproduzione di grotte famose nel mondo, santuari di cemento per la venerazione di santi locali o di santi inventati, location per girarci film e serial televisivi, musei interattivi sulla vita di una volta nelle valli di montagna” (p. 185).
Accanto alla natura vera e crudele, c’è l’idea di trasformare quella stessa natura a uso e consumo degli esseri umani, di trasformare gli stessi spazi naturali in una sorta di truce appendice delle smart cities contemporanee: le stesse idee portate avanti dal personaggio di Primo Draghi in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, e cioè far diventare la campagna intorno a Bologna un gigantesco resort per turisti e per cittadini. Gavaglià è l’uomo della finzione e dello spettacolo, del tornaconto personale, colui che ha abbandonato la montagna per diventare uno spregiudicato “cittadino”. Non è un caso, infatti, che Marchisio, il fotografo ufficiale della sua campagna elettorale, crei delle foto artefatte di Gavaglià e di suo padre nelle quali allestisce come sfondi finti “alcune vedute alpine, con vette aguzze qualche nuvoletta” (p. 75), biechi stereotipi inseriti nella macina abnorme dell’economia capitalistica.
Per fortuna che in questo universo cinico e crudele c’è una delicata presenza silenziosa, quasi la sacra custode di Gavaglià e di suo padre. È Leda, la figlia di Franco, che porta il nome della mitica madre – fra gli altri – dei Dioscuri, di Elena e di Clitennestra, sedotta da Zeus sotto forma di cigno. È l’unica che riesce a rapportarsi al nonno, chiuso in un arcigno ed ostile silenzio con Franco ed è l’unica che lo tratta come un essere umano e non come un’immagine. È Leda a creare un magico sfondo all’intera storia, lei che non parlerà mai o solo per bocca di Franco (il quale, grazie a lei, diverrà a sua volta più ‘umano’), che riferisce a noi lettori continuamente i suoi consigli e i suoi pensieri perché gran parte del libro è un lungo e ininterrotto discorso di Franco rivolto a lei. Vicina alla natura ma anche lontana, Leda ha scelto di trasferirsi all’estero ma quando torna ama circondarsi dei sui cani e dei suoi animali e non sposerebbe nessun uomo che odiasse la campagna, la montagna e gli animali. Per fortuna che c’è lei, in questa danza macabra di spettacolo e di ostentazione, di politica gretta e di meschini tornaconti, a rappresentare un ultimo lembo di umanità; lei che ama leggere e che passa ore nelle librerie e che ci trasmette soffocati segnali di una cultura lenta e silente che, nella velocità e nella rumorosa efficienza oggi tanto esaltate, al pari degli intatti scenari naturali, si sta inesorabilmente perdendo.

(Paolo Lago, Zest – Letteratura sostenibile)

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