Claudio Morandini
La violenza quotidiana come normalità
Il lato oscuro della montagna

«Le botte che mi dava mio padre, senza che sapessi perché. Mi rincorreva a lungo, in silenzio, finché non mi afferrava i capelli sulla nuca o, con uno slancio, le caviglie (le sue gambe, per quanto storte, erano più leste delle mie): allora mi atterrava, e con metodo e ritmo uniforme mi percuoteva a lungo, sempre in silenzio, con l’espressione di un mulo. Botte, botte ovunque, a mano aperta, sonore e pungenti, o a pugno chiuso, sorde e cupe, o pizzichi brucianti, o certe martellate in punta di dita che sembravano volermi entrare nelle carni. Niente graffi: quando era ragazzo una misteriosa malattia gli aveva portato via tutte le unghie. Ma talvolta, quando l’ira era tale da deformargli i lineamenti, morsi cagneschi, con i denti che gli rimanevano.»

È l’inizio di La conca buia di Claudio Morandini, un inizio, raggelante nel contenuto quanto letterariamente folgorante, che fa ritenere di essere davanti a un romanzo non comune. Ed è proprio così: romanzo bellissimo e di dolorosa intensità La conca buia, di cui ci è obbligo parlare – e per questo obbligo ci riterremo scusati se lo facciamo con un po’ di ritardo rispetto all’uscita. La voce narrante, il figlio che racconta le violenze subite per anni da lui bambino e dalla madre da parte del padre e marito, è Franco Gavaglià, oggi sindaco di un comune di montagna i cui abitanti, oltre che nel principale centro urbano, risiedono in villaggi e comunità sparsi in un vasto territorio. Per esorcizzare l’infanzia trascorsa in quasi totale isolamento e più occupato a sottrarsi al genitore che a vivere appieno la vita, Franco si è fatto oggi “cittadino”: la sua stessa eccessiva grassezza, dai pericoli della quale cercano di metterlo in guardia in molti, testimonia la lontananza dai giorni di stenti e miserie del passato. Non più sposato, Franco ha un rapporto ambivalente, di affetto e diffidenza, con la figlia Leda, giovane donna intraprendente che ritiene impossibile, quando ascolta certi racconti, che il nonno, quell’anziano senza denti che tanto le vuol bene, sia stato un tiranno capace di brutalizzare figlio e conserte, animali, dipendenti. Ma le elezioni incombono, tocca avviare la campagna elettorale e, per quanto “cittadino”, Franco deve pur sempre rivolgersi a una popolazione perlopiù di montagna. Come combinare il vecchio e il nuovo? Ecco la pensata della sua cerchia: portare con sé nel tour il padre – quel padre odiato, mentitore, mai pentito – ed esibirlo, anche a costo di imbottirlo di farmaci per ammansirlo, come simbolo della buona gente laboriosa di montagna, della tradizione e dei valori da preservare. Più per protezione verso il nonno che per supporto al padre, Leda accetterà di seguire Franco durante gli incontri pubblici. Di dolorosa intensità, abbiamo detto essere il romanzo. E ciò si deve sopra ogni cosa al tono scelto da Morandini per la sua storia, una storia di angherie e cinismo che coinvolgono in maniera quasi indistinta ogni personaggio: un tono che diremmo placidamente descrittivo, adatto al racconto dell’ordinario e certo non dell’eccezionalità. Come a significare che quelle angherie e quel cinismo in fondo appartengono alla quotidianità: quella di tutti noi.

(Alessandro Marongiu, La nuova Sardegna, 24 febbraio 2024)

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