Eccoti un romanzo che ti provoca, intanto, per qualcosa che ti verrebbe voglia di definire inattualità, e invece ti stimola, proprio per questo, a continuare la lettura (Claudio Morandini, Le larve, Pendragon). Ti compaiono innanzi già nelle prime pagine esseri viscidi che sbucano, a intervalli di quattro anni, dalle viscere della terra, larve che tutto distruggono per poi riacquattarsi e prepararsi alla nuova riapparizione, le chiamano melolontini, e subito ti trovi sbalzato in una sorta di castello kafkiano dove ti guida una voce narrante che subito intuisci collocata dentro una trama di accadimenti misteriosi, viscidi come quelle larve, dominati da un fondo di paure, forse di delitti, sopraffazioni, contorcimenti oscuri del male, obbrobriose materializzazioni del peccato.
Nel clima plumbeo di stanze interminabili disseminate su bui corridoi, in questa dimora che a mano a mano percorri da cima a fondo e scopri avere le fondamenta marce di camminamenti oscuri e labirintici invasi da quelle larve, si materializzano a poco a poco i personaggi di irraccontabili storie: il nonno tirannico violento stupratore, di cui si dice che abbia ucciso i genitori poveri prima di diventare ricco a dismisura, che ha ingravidato la nuora e chissà quante altre donne, licantropo e selvaggio a complemento della sua bestialità, il cui ritratto campeggia fosco a metà d’una scala; il padre vittima del tiranno ma anche della sua paura che lo porta a frequentazioni misteriose che alla fine scopri avere del demoniaco e che anch’esse si nutrono del crudele abuso della forza in spregio di ogni umanità; la voce che racconta, e che vediamo crescere in un apprendistato del male che di giorno in giorno si precisa, si affina, si compiace di sé e giunge fino al delitto quasi gratuito e intanto semina attorno alle sua gesta il cupo gelo di una maledizione che gli viene da quel nonno crudele e incestuoso, modello ripugnante ma modello cui ispirarsi, mentre la sequela di orrore sembra non avere fine e già si prepara a invadere la vita futura del figlio, cresciuto tra una madre neuropatica e un padre sempre più preso dalle sue prove di depravazione compiaciuta. Tutti personaggi senza nome, quasi personificazioni del male, malefiche categorie dello spirito, mentre si affollano attorno a loro, coi loro nomi, le vittime designate delle turpitudini: cameriere violentate, fanciulle ridotte a oggetto sessuale, amici offesi e ingannati, nel culto ostentato del privilegio, nella strafottente barbarie della forza imposta, dichiarata.
Ti viene incontro tutto questo, per di più raccontato in una perfetta combinazione di lingua e stile, dove la precisione del dettato conquista non meno di quanto turbi la materia del racconto, e ti chiedi se tanto profluvio di sozzura umana sia davvero inattuale, frutto fuori stagione di una mente malata, o non sia invece esasperazione metaforica espressa per viscidi fantasmi di larve sotterranee e di nature perverse che hanno torbido spazio tra gli uomini dentro il palazzo chiuso del loro potere, dove la ricchezza si fa strumento di sopraffazione e nessuno spiraglio di riscatto si apre ai sottomessi. Se insomma questo libro non sia da leggere in chiave, si sarebbe detto qualche decennio fa, moralistica, come riflessione senza speranza sulla condizione senza tempo dello stato morale dell’uomo. E dico moralistica non a caso, pensando, più ancora che a Kafka, a un libro di una cinquantina d’anni fa, un’antologia curata da Elémire Zolla, Moralisti moderni, pubblicata da Garzanti con una rivelatrice introduzione di Alberto Moravia. Che proprio nell’Introduzione lamentava, riferendosi al suo tempo, la crisi appunto del moralismo, se non la sua scomparsa, riconducendola alla fine dell’umanesimo, che vuol dire dell’uomo non più chiamato a misura positiva delle cose. Derivava da qui, per Moravia la “prevalenza, in questa prima metà del secolo, delle tendenze distruttive e mortuarie su quelle creative e vitali. Come se l’umanità, sulla soglia forse di una nuova età, si fosse sentita ad un tratto attirata piuttosto dalla morte che dalla vita. I campi di sterminio nazisti possono considerarsi a ragione lo sbocco logico di queste tendenze suicide…”.
Qui, nelle Larve di Morandini, non ci sono campi di sterminio nazisti, o così sembra, ma può ben esserlo questo castello conchiuso, luogo fisico del male più efferato, difeso dalla legge anzi alla legge estraneo e ad essa superiore, e non è neanche vero che i tempi di Moravia, ancora freschi e inorriditi del sangue di Auschwitz, siano così lontani, se sentiamo su di noi le stimmate delle Torri gemelle ma anche di Srebrenica e di Falluja, e Guantanamo è sempre lì, e muri sorgono a dividere uomini da uomini, e uomini si uccidono per uccidere altri uomini. Morandini coglie dunque, a ben vedere, il male che un’altra volta prevale nelle fantasie degli uomini, e ci trasporta in una vicenda che può sembrare di pura fantasia mortuaria, funereamente gotica nell’impianto narrativo, ed è invece denuncia di un disagio, confessione di un’estraneità, ricerca di conforto per un disprezzo condiviso. E sembra far sue queste altre parole di Moravia: “Per questo il mondo moderno, oltre ad essere il mondo del disprezzo, è anche il mondo dell’ipocrisia e del conformismo. D’altra parte, prima ancora di disprezzare gli altri, gli uomini oggi disprezzano se stessi”.
(Alfio Siracusano, su “Il sottoscritto.it”)

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