Dopo l’esordio maiuscolo di Nora e le ombre, Claudio Morandini era atteso al più classico dei varchi. Il suo primo romanzo, infatti, non solo si smarcava con grande forza dalle convenzioni della letteratura italiana cosiddetta “giovane”, ma rilanciava con competenza e passione il primato della scrittura. Le larve, il suo secondo romanzo, non solo conferma quanto di buono era emerso dalle pagine di Nora e le ombre, ma rivela in Morandini un meticoloso stilista della scrittura. Nel fitto di una narrazione che sprofonda negli abissi dei segreti più indicibili di una famiglia, svolgendosi contemporaneamente su più piani e articolazioni – orrori, licantropie, latifondi e sesso – la scrittura di Morandini, gonfia di un’intensità febbrile, parossistica quasi nella sua volontà di cercare il vocabolo, l’aggettivo e la costruzione adatta a ogni situazione, trova un suo lucido delirio espressionista che proprio nel controllo della forma manifesta la sua inquietante virulenza. Rispetto a Nora, il lettore è chiamato a una partecipazione maggiore. Le parole evocano sapori e colori alieni, insinuandosi nei recessi della carne e della mente. La densità di Morandini quasi spaventa. Non tanto per il nitore con il quale evoca mostri e pulsioni, quanto per la maturità espressiva così lontana da qualsivoglia cessione al gusto corrente. Le larve è un “astratto furore” che si scava la propria tana sotto la pelle del lettore. Un teatro pulsionale che monta come una feroce marea. Nella cornice di un’ambientazione neorealistica, Morandini sembra lavorare ai fianchi di maestri come Landolfi e Calvino. Del primo rievoca lo sgretolarsi delle periferie del reale, del secondo aspira al controllo razionale della materia sotto forma di fiaba. Le larve inquieta. E inquieta soprattutto Morandini, la cui voce si va delineando con una forza esponenziale davvero insolita per il panorama delle lettere di casa nostra.
(Giona A. Nazzaro, nella rubrica “Letture” del numero 202 del novembre 2008 di “Rumore”)

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