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Con Domenico Calcaterra, a “Conversazioni festival” (Sant’Agata di Militello, 26/6/2016)

Lo scrittore pubblicato da Exòrma
Romanzo d’alta quota
a cura di Domenico Calcaterra

La caratteristica di Claudio Morandini scrittore è quella di cercare sempre terreni nuovi per provare a raccontare la vita. Dopo il teatrino di A gran giornate, da dove nasce un romanzo così diverso come Neve, cane, piede che esce proprio oggi nelle librerie?

Ho scritto la prima stesura di Neve, cane, piede nel 2011, tra una correzione di bozze e l’altra di A gran giornate, lavorando attorno allo spunto tutto visivo di un piede che sbuca da una valanga. All’inizio ho sentito il personaggio di Adelmo Farandola come uno della compagnia di squinternati picari di A gran giornate – l’ho proprio sentito come uno rimasto indietro, dimenticato dagli altri. Troppo musone per fare gruppo, troppo legato alle sue terre per viaggiare davvero (il suo muoversi è una continua transumanza stagionale tra luoghi a lui familiari), Farandola condivide però con i personaggi del romanzo pubblicato nel 2012 da La Linea una marginalità e una scontentezza del mondo che lo rendono bizzarro, irriducibile. Con quelli condivide anche una sorta di comicità involontaria, fatta di reazioni ritardate, di guerra quotidiana con gli uomini e gli oggetti, di abitudini bislacche, di senso della realtà portato all’estremo. È, come loro, spinto da alcune pulsioni primarie, fame e sonno, ma non dal desiderio sessuale, che in lui è invece cancellato. Ma, a differenza dei personaggi di A gran giornate, non è un conversatore compulsivo – questa funzione, il blablabla, è svolta dal cane che gli si affianca come spalla comica e da tutti gli esseri viventi (ma non solo i viventi, a ben pensarci) con cui entra in contatto.
Poi i personaggi per fortuna crescono in direzioni non previste, diventano altro da ciò che erano nelle intenzioni iniziali: e così è accaduto con Adelmo Farandola, che ha guadagnato una sua autonomia, una sua peculiarità.

Neve, Cane, Piede, nonostante nella nota rivolta al lettore tu faccia espresso rimando a certi modelli svizzeri, a certe storie di montagna, penso che possa essere tranquillamente disancorato da questa nicchia di genere, dalla quale pure sei partito per scriverlo, dal momento che mi pare abbia dei nuclei di verità che rendono la storia del vecchio scontroso e solitario Adelmo Farandola una storia di vita.

Questo breve romanzo è nato come tributo (non senza qualche virgolettatura ironica) alla letteratura di montagna, che non ho mai amato particolarmente ma che negli ultimi anni ho letto con interesse sempre maggiore: certi svizzeri oggi poco praticati, almeno in Italia, come Charles-Ferdinand Ramuz, o autori in lingua romancia come Leo Tuor o Oscar Peer, o un grande aedo della neve come il ticinese Giovanni Orelli (devo molto a un romanzo come L’anno della valanga). A proposito di scrittori di alta quota, degli italiani citerei Paolo Morelli, che sa raccontare il rapporto tra uomo e ambiente di montagna come nessun altro (per esempio in Vademecum per perdersi in montagna, nottetempo, del 2003); quanto a Rigoni Stern, ammiro il suo modo di sentirsi un «salice nano» nella «foresta della letteratura», ma confesso che non è stato tra i riferimenti più immediati del mio libro.
Sicuramente la figura del vecchio solitario e scontroso è una costante della letteratura di montagna: vi rappresenta l’ultimo legame con un mondo rurale perduto, stroncato dalle radicali trasformazioni dell’ambiente alpino. Dietro alla sua ostinazione, che ha sempre dell’epico e si tinge di solennità, di una certa ieraticità, si intravede la nostalgia, espressa o sottintesa, per un mondo semplice e anche brutale che si sta estinguendo o è già estinto, e per i valori legati a quel mondo.
Io ho preferito fare del mio vecchio solitario qualcosa di diverso: non è un superstite, se non di se stesso. Il suo legame con il passato è precario, allucinatorio, alterato dal progredire di una demenza che gli sta togliendo i ricordi e tramuta i punti fermi in ossessioni. È un vecchio disarmato di tutto, e sembra vivere già sul limite tra la vita e la morte: le sue transumanze stagionali le compie in un certo senso tra un mondo e l’altro, la sua vita trascolora tra una dimensione sepolcrale e un precario ritorno alla luce del sole. La sua stessa percezione del mondo sembra confondere realtà e sogno. È un sociopatico, un reietto, un matto, uno che parla con le bestie e si sente pure rispondere, un eremita senza fede.
Uomo solitario di montagna, animali parlanti, natura aspra, vita dura: niente di nuovo, si dirà, e a ragione. Ma spero che la mia rilettura di questi elementi costanti della letteratura di montagna suoni diversa dalle precedenti, che lo sguardo sui dettagli (sono essenziali, i dettagli) sia nuovo, che la scrittura non sia derivativa.
Adelmo Farandola non è l’emblema del montanaro, insomma. Non conosco montanari così, non so se esistano, e quella di Farandola non è la mia idea della vita di montagna: è la costruzione (favolosa, in fondo) di una esistenza estrema, improbabile, con una forte componente allegorica (ma non chiedermi di che cosa sia allegoria Farandola, non l’ho programmato e non lo saprei dire, o al massimo potrei dire che è l’allegoria della condizione umana, nel suo trascorrere inevitabile verso la morte, ma sappiamo che è una risposta insoddisfacente, accomodante).

A leggerti si ha sempre l’impressione di avere a che fare con uno scrittore non italiano: la tua cifra rassomiglia a quella di taluni scrittori d’oltralpe; e, a differenza di molti altri, il tuo concentrarsi sul dettato, sul ritmo, sul respiro da conferire al libro sembra essere un tuo tratto distintivo. Puoi dirci come lavori a ogni tuo romanzo e quali sono i tuoi riferimenti?

Forse il mio essere “di confine”, oltre a tenermi lontano – ahimè – da ciò che di importante e interessante accade nelle capitali della cultura, mi aiuta a rimanere distaccato dalle mode correnti. Posso scegliermi con una certa libertà modelli, riferimenti fuori tempo, coltivare amori e idiosincrasie, allungare lo sguardo dove mi pare. Di recente, dicevamo, mi sono innamorato della parola scabra e forte degli svizzeri che ho già citato e che cito anche alla fine del libro: romanzieri che mirano a un’essenzialità anche un po’ sgarbata e brutale, e che mi hanno attirato proprio perché io, di mio, andrei da tutt’altra parte, verso un’eloquenza baroccheggiante tutta contaminazioni. Ho ritrovato la stessa secchezza in certi narratori liguri, della Liguria interna, quella che diffida del mare, che vive come se il mare non ci fosse, in una perenne condizione di irrequietudine liminale (Biamonti, Bertolani, Magliani), e anche di quella lingua ruvida e spontaneamente poetica mi sono innamorato.
I miei romanzi nascono sempre da un’ideuzza che non fisso mai in uno schema. Uno spunto tira l’altro, una scena ne suggerisce una seconda, poi una terza, a poco a poco si creano correnti secondarie, rivoli che diventano digressioni, nuclei narrativi forti. Insomma, procedo accumulando pagine, finché da quell’accumulo non scaturisce un senso, una direzione, e tra elementi tanto disparati non si creano legami. Mi rendo conto che ne sto parlando come se il romanzo si formasse da sé, quasi mio malgrado, e io mi limitassi ad assistere alla sua crescita. In un certo senso è proprio così che mi comporto: il controllo lo esercito (per qualche anno, senza fretta, anche se con dosi crescenti di ansia) sulla forma, sull’effetto sonoro, sul ritmo (sul cursus direi, se non temessi di suonare come un vecchio trombone), sul rapporto tra le parti e l’insieme. È la fase in cui mi sento un po’ come Teo Macero alle prese con le lunghe improvvisazioni di Miles Davis a metà anni ’70.
È un modo di procedere che qualunque scuola di scrittura sconsiglierebbe, immagino.

Da sempre ci hai abituato a costruzioni solidissime. Da Le larve (Pendragon, 2008), saga familiare dalle atmosfere gotiche, al romanzo-matrioska Rapsodia su un tema solo, con la storia autenticamente falsa dell’indimenticabile personaggio del compositore russo Rafail Dvoinikov; dall’apologo noir, d’ambientazione universitaria, Il sangue del tiranno (Agenzia X, 2011) al già citato A gran giornate (La Linea, 2012), affresco allucinato e visionario nel quale metti insieme una sorta di repertorio di varietà manicomiale. La consapevolezza del peso della letterarietà, di ciò che finora è stato scritto, di come ciò sia stato raccontato, sembra essere presente in ogni tua pagina, in ogni atomo della tua scrittura: è davvero così?

È proprio così: e vivo questa consapevolezza (sempre destinata a essere parziale, perché non si può leggere tutto, conoscere tutto) da una parte come l’opportunità splendida di entrare in qualche modo nel flusso della letteratura, di mettere un piede nel solco di una tradizione illustre, dall’altra come il rischio di ripetere ciò che è già stato detto, e cento volte meglio, da altri.
Sono sinceramente convinto che la letteratura renda più acuto lo sguardo sulle cose, sul mondo, e non sia accademia o arcadia. Le mie esperienze le vivo sempre attraverso la lente della trasfigurazione letteraria, o almeno con la sensazione di ciò che un’esperienza vera potrebbe diventare se scritta, se ripensata attraverso la ricomposizione letteraria. Andando in montagna, scoprendo lungo sentieri poco battuti certi valloncelli poco attraenti, tutti pietre, eppure, a vedere i ruderi di qualche baita, frequentati da qualcuno in passato, mi sono chiesto non chi abitasse da quelle parti, ma come si potrebbe raccontare la vita di chi vi abitava: con quali parole, con quale voce raccontare quella vita, quelle giornate, quei gesti ripetuti, quel mondo interiore, quel rapporto con bestie e con l’ambiente. Pensiamola come una sfida: un mondo così lontano da me, per il quale non provo una vera attrazione, che nemmeno capisco (soprattutto non capisco l’esaltazione di chi lo descrive nostalgicamente con accenti bucolici). Era insomma l’occasione di entrare in comunicazione con una realtà estranea, che ho sempre guardato con una certa circospezione (dalle mie parti la retorica della montagna è pervasiva, ha creato miti di comodo, di cui fa uso abbondante l’eloquenza politica), proprio attraverso la reinvenzione letteraria, attraverso il filtro della scrittura.
Misurarsi con l’altro, con il lontano, con l’estraneo, con l’incompatibile: mi pare l’opportunità più eccitante, e anche la più nobile offerta dalla letteratura, sia a chi scrive sia a chi legge.

In Niente stoffe leggere, recensendo A gran giornate, ho scritto che quei personaggi, le loro vite stralunate, le impreviste “deviazioni” che incombono nelle loro esistenze, mi hanno riportato a taluni romanzi di Francesco Permunian. Dal canto tuo, quali sono gli autori italiani che senti più vicini alle tue corde di romanziere?

Ci sono autori di oggi che sento affini ma da cui mi guardo, perché mi sento influenzabile e temo i manierismi: Michele Mari, per esempio, o appunto Permunian. Il loro mondo e il mio coincidono in molti punti, così lo stile, la voce. Per questo mi sto sforzando di stare, per così dire, lontano dai loro libri, di visitare mondi diversi, che loro non visiterebbero mai, di asciugare la mia scrittura in modo che ricordi la loro il meno possibile. Sto alla larga da loro, viventi, come, che so, da Landolfi, a cui pure devo moltissimo, o da Gadda, da autori cioè che mi hanno nutrito e continuano a nutrirmi ma di cui non vorrei diventare un epigono.
Mi soccorrono ancora Calvino e Primo Levi, piuttosto, quando ho bisogno di riscoprire come il massimo dell’invenzione possa coniugarsi con il massimo della precisione. Mentre continuare a leggere nuovi libri di Carla Vasio mi fa sentire il bisogno di continuare a sperimentare, e scoprire in libreria un nuovo titolo di Giuseppe O. Longo mi trasmette la bellezza di una posizione defilata ma coerente.
Ma non chiedermi altri nomi di oggi, rischierei di dimenticarne qualcuno. Non sono pochi, per fortuna – forse sono solo tenuti nelle retrovie.

Il dato che emerge, e ciò lo conferma anche quest’ultimo romanzo Neve, Cane, Piede, è il tuo scrivere sempre e comunque in barba ad ogni immediato utilitarismo mimetico. Posso chiederti qual è la tua idea di letteratura, di realismo e, dal momento che sei anche un fine recensore, di critica?

Mi sento realista, sinceramente e senza riserve: solo che a me piace esplorare quella zona particolare che si stende tra l’estrema precisione realistica e la visionarietà, quella in cui l’occhio sui dettagli si è fatto così attento, e i dettagli così numerosi, che tutto, paradossalmente, diventa sfumato, indeterminato, indefinibile, allusivo. Qualcosa che potrebbe stare tra Bosch e Arcimboldo. Certo la narrazione di Neve, cane, piede si concentra sulla raccolta di particolari, ambisce a repertoriare aspetti della morfologia del territorio montano, finisce per innamorarsi della terminologia della botanica e della geologia. È il linguaggio di un narratore insieme partecipe e distante, difficile da collocare.
Forse è proprio da questa osservazione al microscopio del dettaglio difettoso, dello sconveniente, dell’incongruo che può sfuggire a uno sguardo distratto, del brulicare insomma della realtà in tutto quello che ha di imprendibile, che nasce quel senso del comico di cui non so fare a meno. Non cerco l’illustrazione sociologica, non mi interessa l’affresco storico: non ne sarei capace, finirei per essere continuamente distratto da altro, da ciò che sta dietro, nascosto, dalle minuzie. Non ho l’ambizione di scolpire una testimonianza, di spiegare definitivamente il mio tempo o la condizione umana: posso solo provare a trasmettere la difficoltà di spiegarli, di trovarci un senso. Mi sento di appartenere insomma a quella schiera che vede nella letteratura l’esercizio (proficuo, doveroso, anzi, altamente morale) del dubbio, della domanda più che della risposta, dello spiazzamento, del depistaggio, dell’incrinatura di certezze troppo solide, dell’inquietudine ma anche della meraviglia.
Però, ti dirò, non sono guidato da queste considerazioni teoriche quando scrivo. In quei momenti intervengono altri stimoli più pratici: la curiosità di seguire il formarsi di un carattere, per esempio, o il pregustare certe reazioni dei personaggi dinanzi a certi intoppi, il piacere di scoprire uno sviluppo imprevisto, e poi questioni di carattere formale, linguistico, architettonico.

Sappiamo dell’importanza che ha nella tua vita la musica, del tuo grande amore per Stravinskij. Nel 2014 hai scritto il libretto per un’opera, Gli oscillanti, per la musica di Marta Raviglia e Manuel Attanasio. In che relazione si pone questa tua attenzione per la musica con la tua produzione letteraria? I tuoi libri spesso danno l’idea di essere concepiti come vere e proprie partiture: dalla Rapsodia di Dvoinikov, alla Sinfonia di A gran giornate. Come potremmo definire Neve, Cane, Piede?

Hai ragione, sono sempre guidato da preoccupazioni di ordine “musicale” quando metto insieme le parti, quando lavoro sullo sviluppo di una storia, anche se la storia non parla di musica. Per le dimensioni ridotte, per la presenza di un limitato numero di ingredienti (o di temi, se vuoi), Neve, cane , piede mi è venuto fuori come una specie di sonatina. Ha anche una struttura tripartita, con un allegro iniziale che corrisponde all’autunno, un ampio movimento lento centrale che coincide con il lungo inverno passato sotto la neve, e un allegro finale primaverile. Non è una struttura vincolante, e nemmeno programmata: diciamo che pensare il romanzo in quei termini mi ha aiutato nella composizione, nel dosaggio, nella ricerca di un equilibrio.
In fondo, uno degli autori che ho avuto più presenti nella ricerca di una voce è stato Ramuz, che proprio con Stravinskij ha avuto una feconda collaborazione negli anni della Prima Guerra Mondiale. Forse anche delle opere che sono nate da questa collaborazione (Les Noces, Renard, Histoire du soldat e altro) si avverte l’eco in certe pagine di Neve, cane, piede. In fondo è un ritorno a Rapsodia su un solo tema: lì il personaggio di Dvoinikov e la ricostruzione delle sue composizioni dovevano molto alla vita di Šostakovič, ma la struttura a dialogo e diversi episodi dovevano moltissimo alle conversazioni tra Stravinskij e Robert Craft. E da sempre sento l’atteggiamento di Stravinskij, quell’eleganza sghemba, quell’eclettismo distaccato e ironico, quel senso del limite, quel giocare altamente artigianale con tutto ciò che la tradizione mette a disposizione, come un modello irresistibile.

(A cura di Domenico Calcaterra, http://www.succedeoggi.it/2015/11/romanzo-dalta-quota/)

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