Ne esistono ancora, di questi eremiti. L’Italia, che in tante parti è sovraffollata, che fa fiorire ovunque aiuole di case con la tendenza a tappezzare di mattoni ogni centimetro quadrato, che si direbbe ormai tutta piena e svelata, eppure fra le sue montagne nasconde ancora angoli selvaggi. Mio padre ne andava continuamente in cerca e li trovava. E, un po’ eremita anche lui, vi scopriva spesso eremiti che si erano sottratti al rumore del mondo. Così non mi stupisce la storia che racconta Morandini, e tanto meno mi stupisce che il primo spunto d’ispirazione sia nato da un personaggio vero.
Che poi l’avventura di un solo uomo acquisti nel suo svolgersi le dimensioni di una solitudine esistenziale, direi che è un destino inevitabile, quando Claudio Morandini ci mette le mani.
Personaggio non facile, Adelmo Farandola, schivo e misantropo fino all’antipatia, non lascia però indifferenti. Soprattutto colpisce la sua ostinazione. È come un soldato in missione, e il suo obiettivo è di ottenere il massimo isolamento possibile. È una difesa? È il prodotto dei traumi della guerra, e prima ancora dell’elettricità che passava nei fili dell’alta tensione sopra il suo villaggio inquinando i cervelli degli abitanti? Comunque sia è in fuga da ogni contatto, e in definitiva perfino dal contatto con se stesso. Si isola dal suo corpo lasciandolo coprire via via da uno strato di sudiciume, e si ritira perfino dalla propria mente sprofondando sempre più in un limbo della memoria. Ha in sé qualcosa di ineluttabile e disperato (direi tranquillamente disperato), come certi personaggi di Paul Auster che implodono lentamente.
Spesso il mondo esterno cerca di stanarlo e qualche volta lui deve scendere a compromessi: per acquistare le provviste nell’emporio del paese, per rispondere alle domande indiscrete del guardiacaccia, per sopportare la vicinanza di un cane che si intestardisce ad essergli amico.
Qualche lettore potrebbe sorprendersi del fatto che Adelmo Farandola parli in continuazione con esseri animati e inanimati, umani o animali, e soprattutto potrebbe sorprendersi del fatto che tutti questi interlocutori gli rispondano, e dio ne scampi potrebbe scambiare tutta la storia per una favola. Non lo è.
Il fatto vero, verissimo, è che la mente umana è conformata per il dialogo. Piuttosto che tacere del tutto, cosa che la sua natura non contempla, la mente inventa monologhi. Ma poiché anche il monologo alla fine non le è congeniale, necessariamente si ingaggia in un dialogo, non importa come. Così Adelmo parla con tutto quello che lo circonda: neve, cose, animali, personaggi dei suoi ricordi, cadaveri. E alla fine, per il fatto stesso che li intende come interlocutori, ne percepisce le risposte.

La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. (…) Là sotto, nella baita compressa dai metri di neve, tutto giunge attutito, ma giunge. E quel baccano che perdura anche di notte sembra modularsi come una partitura di voci. (…)
– Se lo dici tu – butta lì allora Adelmo Farandola, a un borborigmo del ghiaccio.
Oppure: – Certo, come no – a uno schianto troppo lontano per essere davvero minaccioso.
Gli sgocciolii che di giorno sembrano annunciare la primavera lo fanno ridere e un po’ lo esasperano. – Allora, la finiamo o no? – scatta allora, con una stizza parodistica.
– Prego? – equivoca il cane.
– Non parlavo con te – dice Adelmo Farandola.
– Ah, no?
– No. Sciò, sciò!

Le pagine in cui si parla del rapporto con la neve, di quella neve animata e intrusiva che diventa persona, sono fra le più belle e suggestive non solo del romanzo, ma di qualsiasi libro io abbia letto sull’argomento. Vi ho ritrovato sensazioni che anch’io, senza essere Adelmo Farandola, ho provato in analoghe situazioni. Mio padre, che come dicevo era anche lui un po’ eremita, non mi lesinava campeggi invernali in baite remote, tanto che una volta, sorpresi da una nevicata, toccò fare sette chilometri a piedi, sprofondando nella neve fino all’inguine, per riprendere contatto con il consorzio umano. Dunque, se riconosco nel romanzo certe sensazioni, so quello che dico. Devo aggiungere però che per me nel curriculum di Morandini A gran giornate detiene ancora il primo posto.

(Giovanna Repetto, su Il Paradiso degli Orchi)

 

  • Share on Tumblr