Una speciale letteratura della malinconia
“Alla fine di un sogno a occhi aperti in cui l’intero paese viene dato alle fiamme, fiamme alte, urlanti, contro cui si agitano invano le sagome dei pompieri e su cui invano ruotano le pale degli elicotteri carichi d’acqua – alla fine di quel sogno, Adelmo Farandola, placato, si siede su un masso e riesce persino a sorridere. Guarderà nella stalla solo perché non si sa mai. Ormai però, nella sua fantasia, tra il fumo degli incendi finalmente domati, la stalla aperta gli rivela scorte di cibo e vino.”
“Neve, cane, piede” è un libro di speciale qualità letteraria, fatto di quel fulgore solitudinale, pregiato, in grado di mai svelare il difficile confine tra materico e non. Nelle Alpi, didentro quei valloni innevati che sembrano d’altri mondi, si muove come un’ombra di carne Adelmo Farandola insieme al suo cane. Rinchiuso nella baita, nel domestico silenzio, nel procedere atavico delle stagioni, e nel rumore del tempo, sigilla la sua vita. Fino a un’insidia del fato.
La trama, netta, che si percepisce come una sorta di seconda presenza, uno spazio atteso e saggio, scandito dai metafisici (oppure reali) dialoghi col cane, è condita da una lingua che suona come un violino potente e insieme preziosamente spiritato. Lo stile è dunque in possesso di una linearità saggia tale da concedere quel salto verso la questione del metafisico.
“Nevica ancora, per notti intere, di giorno poi un vento violento e caldo comprime quella neve, alternandosi con l’aria gelida della notte e la rende dura come pietra.” E nonostante la dimensione reale si avvicendi grazie agli inattesi eventi o alla presenza di personaggi, il tempio immateriale eretto da Morandini si legge sempre movimentato dai territori e dal protagonista che è letterariamente carne e fantasma.
(Orazio Labbate, Domenica 24 del Sole 24 ore, 17 gennaio 2016)