Prima di Neve, Cane, Piede, il recente romanzo breve di Claudio Morandini, di lui avevo letto soltanto A gran giornate, che mi era parso risolvere in una chiave non estranea a certa tradizione felicemente eroicomica una tensione allegorica assai pronunciata: destini bizzarri di personaggi insieme neri e comici adombravano uno sguardo sul mondo leggero in apparenza quanto spietato nella sostanza.

Ora, questa stessa inesorabilità della condizione umana – “è tutto un morire, poche storie” – è evocata nel piccolo libro, passando attraverso una storia liminare, come estrema appare la vita solitaria di un assai strambo individuo sulle montagne alpine, fuori dalla comunità del villaggio, ma raccolta tutta in una baita e solo d’incanto colta di sorpresa da una presenza forte, fantastica nel modo di presentarsi al personaggio e ai lettori: un cane. Perché questo cane parla – non senza una certa verve, peraltro –, così spostando gli equilibri del romanzo sotto i nostri occhi. Per decine di pagine ammiri la lingua crepitante di un dettato degnissimo di stare accanto al Verga più esatto, e poi ti ritrovi davanti a quella che qualcuno ha felicemente definito una “favola nera”. La formula aiuta se si pensa che più avanti ancora, dopo un inverno da cui il cane e Adelmo Farandola – personaggio che nasce a margine del precedente libro di Morandini e di certo ne esaspera le stravaganze – escono come eroici sopravvissuti, c’imbattiamo in un piede che emerge da una valanga.

Nemmeno la storia dell’uomo che (verosimilmente?) è stato ucciso sembra filare liscia. Perché Adelmo, individuo senza memoria – nemmeno quella a breve termine (o forse finge, forse prende in giro tutti, forse ricorda solo quello che qualcosa dentro di lui ha deciso che valga la pena ricordare) – non sai come prenderlo, non sai se c’è o ci fa, non sai se fidarti di ciò che dice di vedere. Adelmo condivide con gli umani del villaggio una lingua, capisce ciò che gli altri dicono, ma la usa il meno possibile – quando è costretto a tornare al villaggio per le provviste. Per il resto, sa tutto della vita segreta dell’alpe (come il deserto, non è un deserto), dei suoi silenzi e delle sue voci, della sua vita animale e vegetale, conosce i segreti della neve (se potesse, come un esquimese utilizzerebbe nomi diversi per indicarne i vari stadi), vive da animale sbilenco ma superbo nella crudeltà di una natura spaventosa ma con gli umani per carità, meno li vede meglio si sente. Non si lava, il sudiciume aiuta a proteggerlo come una seconda pelle, si scalda con le proprie scorregge. Non è nemmeno, secondo abusato cliché, il tipo del saggio, dell’anacoreta spirituale o un rappresentante di un ascetico ordine montanaro e paradigmatico di chissà quali valori perduti: è egli stesso perduto, andato di testa (dopo un po’ il lettore se ne persuade).

Azzerata la retorica del “monte analogo”, invece assai pregnante e imperioso appare da un lato lo scenario tutto, dall’altra la scomposizione delle parti, piccole e grandi, che lo tengono tragicomicamente insieme: tutto descritto con uno sguardo di lucentezza quasi insostenibile. E la domanda sul personaggio il lettore la sposta sul narratore; perché si chiede se non giochi con lui per portarlo dove vuole, oppure se in una narrazione così straniante anch’egli, a partire da un’immagine, sia stato portato via via a inseguire le altre, a vedere dove andavano a parare, camminando allucinato come il suo eroe: ma con una lingua e un ritmo da vero maestro. Che “il vero” lo cerca per vie accidentate, ché ne sa l’assurda s-composizione, lo sberleffo del suo ritrarsi e la rivelazione inaspettata: mai conclusa. Fra i pochissimi libri italiani imperdibili del 2015.

(Michele Lupo, Il Recensore)

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