“NEVE, CANE, PIEDE” 
DI CLAUDIO MORANDINI
Storia dolente di vita montana
di Cristiana Saporito

Claudio Morandini ci presenta un personaggio ruvido e potente incastonato tra le vette del suo isolamento. Dove la pazzia offre, forse, il solo possibile ristoro.

La neve non è bianca. Non è sempre e soltanto la pastosa cornice di latte in cui inabissare gli sci o inscatolare il Natale. S’infanga, si sgretola, si squarcia all’improvviso, come i polsi ormai stanchi. E soprattutto, spanne e scalate più in là delle foto di gruppo a bordo pista, la neve isola. È distanza condensata, polvere e ghiaia di ghiaccio. Il rifugio trapuntato per chi schiva l’orrore, come Mario Rigoni Stern impantanato nelle steppe di Russia o per chi cerca il respiro degli alberi, come fa Mauro Corona nei suoi frammenti di vita montana.
Questa è una storia di freddo. E di solitudine. L’ha scritta Claudio Morandini nel romanzo Neve, cane, piede. È sgorgata di getto, da una domenica ruvida e alpina, un incontro su un sentiero condito da pioggia di pigne e qualche sasso. Così è stato accolto l’autore da un vecchio spuntato da una conca: gambe larghe e pietre in mano. Perché ci sono uomini per cui gli altri sono un ingombro. Abitatori scelti di posti inospitali, avvezzi solo al peso della propria ombra. Questo maschio avvizzito con un cane lercio accanto gli pare quasi una visione.
Nessuno, nei fondali della valle, nella fungaia affollata chiamata paese, sa davvero di lui. Chi sia, se sia, come trascini i suoi giorni, è un grappolo d’ipotesi in apnea.
Così, dal calco scostante di questo sconosciuto, affiora il suo protagonista. Adelmo Farandola. Nome e cognome perpetuati in ogni pagina, come una litania. Inscindibili, impensabili lontani.
È anziano e rintanato, nel suo scudo di rocce, dove la natura non è incline a sorridere. Gli appartiene tutto in quella vallata deserta: la stalla spampanata, le mucche scomparse, i muschi nel vento.
E soprattutto il silenzio. Per questo non vuole intaccarlo. Per questo ogni avventore, ogni sporadico turista sbucato come un verme troppo audace, va caldamente esortato alla fuga. Il distacco lo scherma, lo ammanta fino all’orlo di un’igiene inesistente. Così, per chi oltrepassi il gelo, la terra brulla e infastidita, si erge ancora più feroce la barriera del sudicio. Una geniale impalcatura di odori muffati e croste imperiali.

«Da molti mesi Adelmo Farandola non si lava, e lascia che il tanfo gli crei attorno un’aura di calore. […] Un piacevole strato colloso viene a formarsi su di lui, mese dopo mese, uniforme, di cui si accorge solo a momenti, quando il prurito lo ridesta da un imbambolamento e lo costringe a piegarsi e contorcersi per arrivare al punto su cui grattare. Che importa se la gente lo tiene alla lontana, o spalanca le porte quando passa lui, o si porta le mani alla bocca per non respirare? Anzi, meglio così, non c’è da fidarsi della gente che si profuma e si pettina […], che finge di non puzzare».

La neve gli somiglia, non s’imbelletta mai e piomba al suolo per quello che è. Così, quando in quella campana di eremitaggio così tondo si affaccia un cane, il cane, innominato, unico immaginabile quadrupede nel raggio assolato di quel riparo, il vecchio è sconvolto.
Un cane che parla, esattamente come lui, che perfora quella lastra di mutismo e che gli chiede il necessario, l’impossibile: una manciata di avanzi e d’affetto. È l’alter ego temuto e Adelmo Farandola scalcia, non lo vorrebbe. Perché ne ha troppo bisogno, perché assegnare a qualcuno il potere di lasciarci significa armare la nostra condanna. Smantellare i bastioni di ogni certezza. L’altro che può amarti minaccia più di un dirupo. Eppure, suo malgrado, il cane resta e avvia col suo compagno spigoloso una serie di dialoghi spassosi. Concreti e surreali.
Adelmo Farandola non è più solo, ha qualcuno da aspettare, qualcuno che però gli ricorda che la sua mente non ricorda più così bene. Sì, perché nella sua testa le immagini si accalcano, si pestano e si scacciano come sciami appuntiti.
Adelmo Farandola non sa cosa ha fatto, se l’ha già fatto o solo pensato e il cane è disorientato quanto lui. È la voce del suo smarrimento, quello che prima poteva omettere o sommergere sotto tutta la sua neve. Di culla e d’oblio. E in questo convoglio di eventi indistinti, germoglia un piede, un fiore decomposto di carne. L’iceberg putrefatto di un cervello alla deriva. Chi è, a quale faccia è appartenuto, Adelmo Farandola non sa. Scava fuori e dentro, perché lì, al centro solitario della sua foschia, c’è il crepaccio più vorace.

Scrittura profonda, che naviga il grottesco, l’ironico, il drammatico. Aspra e brillante. Dura come le ore che descrive. Come i racconti sui ghiacci di Christoph Ransmayr o i romanzi montani di Charles-Ferdinand Ramuz, a cui è apertamente ispirato. Morandini sa, che la natura schiaffeggia, che è arida e matrigna, come qualcuno c’insegnò. Che la neve è nera e che il rifugio di alcuni, il rifiuto ostinato del mondo che brulica, non ha niente di bucolico. Niente di morbido. Che a volte è solo una tomba. Una bolla sotto zero che a noi, impegnati a sgomitare a livello del mare, li fa sembrare una favola scura.

Cristiana Saporito, Flanerì, 3 marzo 2016)

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