Claudio Morandini, ‘Neve, cane, piede’ – La recensione
Ogni vallata ha i suoi eremiti da raccontare: una fiaba d’alta montagna al suono sinistro della neve

di Michele Lauro

Ha un titolo semplice come un haiku e accalappiante come nostalgia di sentori montani. Malghe, alpeggi e bivacchi, rododendri e pastori, volpi e marmotte, antiche cave dismesse. Neve, cane, piede non tradisce le aspettative. Libertà, solitudine e pietraie. Il vuoto vertiginoso. La nettezza sillabica della triade si spalanca su una conca alpina come ce ne sono tante: una valle angusta, preclusa al turismo domenicale salvo qualche indomito alla ricerca di silenzi e di formaggi di malga. Ma lassù c’era una storia da raccontare e l’ha afferrata al volo, portata dal vento o dal caso, Claudio Morandini.

La storia nasce dall’incontro con un eremita, racconta l’autore nell’epilogo, durante un’escursione in montagna in cui fu preso a colpi di pigne su un sentiero. Sulla soglia di una catapecchia, accanto a un cane incredibilmente sporco, c’era un vecchio che squadrò il camminatore al di sotto di un sudicio cappellaccio, rivelando una misteriosa scintilla di vita. Morandini raccolse quello sguardo come un invito a proseguire oltre ma si ritrovò ben presto a inseguire una fantasticheria, ricevendo nei bar del paese risposte e allusioni così vaghe da sembrare studiate ad arte per attizzare una novella.
“Ci sono racconti silenziosi come sassi e racconti che parlano come alberi e piccoli animali”, si legge nella citazione di Giuliano Scabia. Neve, cane, piede s’iscrive fra questi ultimi. Non pare affatto strano, cioè non pare un artificio letterario, che a un certo punto della storia cani corvi camosci e perfino i cadaveri si mettano a dialogare con quell’eroe lunatico ribattezzato Adelmo Farandola. La personificazione della natura fluidifica il racconto in una serie di dialoghi carichi di una scontrosa grazia che risuona fra i silenzi delle pietraie (“Che giorno è – chiede al cane. – E che ne so? È oggi”), mettendo in scena rivalità arcaiche (“Così vanno le cose, io caccio, voi siete cacciati”) e il paradosso della mitezza sulla pelle del cane che si accontenta dell’odore del suo amico uomo (“Vaffanculo, schiavo”, lo apostrofano gli uccelli).
Adelmo ha scelto di abitare in una conca dimenticata e invasa dalle frane, in compagnia di un assembramento muto di idoli di pietra. Finché un giorno un cane spelacchiato gli offre la sua solitudine e il suo fiuto in cambio di qualche avanzo di scorbutica compagnia. Il vecchio ha perso l’olfatto e la memoria. Il cane ricorda tutto e annusa tutto. Con pazienza feroce la coppia aspetta la fine dell’inverno raschiando il sudiciume dalle stoviglie e ingaggiando una quotidiana sfida contro gli avversari della vita d’alta montagna: Freddo Fame Sonno. Il rito del disgelo – l’ubriacatura del rinnovamento – porta con sé gli scricchiolii di una slavina da cui emerge a poco a poco l’imprevisto incomodo di questa avventura.
Nel suo sguardo, rammenta Morandini, “non ho letto alcuna metafisica. Secondo me non pensava all’anima, all’immortalità, al dopo…” E proprio dalla segreta dialettica tra immanenza e metafisica, ricordo e dimenticanza, claustrofobia e vertigine, libertà e possesso si propaga la poetica immaginazione che tinge questa fiaba del bianco, del rosso e del nero, come ogni storia che si rispetti. Laddove sfumano i contorni tra sogno e realtà, la vita e la morte sembrano attraversate da una zona franca appena sfiorata dai borborigmi del ghiaccio e della neve, quando d’inverno giocano a violare la solitudine delle baite.
Nel chiudere l’ultima pagina sento il tepore della coperta che mi avvolge ma posso avvertire una specie di freddo umido e statico che disegna sotto gli occhi dei cerchi di dolore. Neve, cane, piede propone stimoli molto fisici in un sottobosco fitto di enigmi. Ogni provocazione del matto scorbutico sociopatico e puzzone (“Non c’è da fidarsi della gente che si lava e vive nel pulito”) invia un sussulto esistenziale spesso rumoroso, sfrontato come una massa nevosa che satura ogni fessura. L’antico dilemma della natura madre e matrigna, capace di sradicare i tronchi e sradicare l’io, con la stessa forza indifferente.

(Michele Lauro, Panorama.it, 17 aprile 2016)

  • Share on Tumblr