Piovono pietre fin troppo umane
di Giorgio Vasta

Sono bizzose, imprevedibili, al fondo demoniache: le creature minerali che popolano il nuovo romanzo di Claudio Morandini sconvolgono la vita di una comunità montana. E anche quando ne diventano parte non perdono tutto il loro mistero

Sono bizzose, imprevedibili se non del tutto arbitrarie; sono emotive, a volte tragiche ma più che altro ironiche, permalosissime e vendicative, letteralmente erratiche: e ancora sono stupide eppure strategiche, testarde e indifferenti: sono funeste, sono fatali. Quelle che sembrano le qualità di personaggi in carne e ossa, magari di un contemporaneo manipolo di erinni impegnate a perseguitare secondo capriccio una stirpe sciagurata, sono invece gli attributi di un plotone di sassi e sassolini, ghiaia e macigni, selci e rocce: organismi solo in teoria inanimati (dominati in realtà da un moto febbrile) che nell’ultimo libro di Claudio Morandini, Le pietre, coincidono con una moltitudine di demoni frantumati che all’improvviso stravolgono l’esistenza di una comunità montana – dislocata tra Sostigno, a valle, e Testagno, a monte – fin lì condannata a vivere in una specie di tradizionale innocenza; solo l’irruzione delle pietre muterà la percezione delle cose spingendo i singoli e la collettività intera a fare i conti con il male (sebbene sempre d’ordine tragicomico).
Le prime avvisaglie del perturbante consistono in un mucchietto di polvere che Ettore Saponara, insegnante in pensione, trova sulle piastrelle in cotto antico del suo soggiorno; insieme ad Agnese, sua moglie, prova a supporre cosa possa essere accaduto, ma ogni tentativo di comprendere è vano.
Intanto la polvere si organizza, si coagula e torna a farsi viva in forma di sassetti.
Nel giro di poco le epifanie lapidarie si moltiplicano: le pietre piovono improvvise dall’alto e prendono possesso di una parte della casa, precipitando i coniugi Saponara nello sconforto e inducendoli a una transumanza verticale. Per affrontare l’equivalente letterario dei temibili “mimimmi” – i massi che minacciavano il drappello capitanato da Corrado Guzzanti in Fascisti su Marte – accorrono maghi e guaritori; gli scettici sono certi che sia solo una truffa, mentre i geologi cominciano a misurare scientificamente il fenomeno.
Solo che le pietre non si lasciano addomesticare, ostinandosi invece a permanere incomprensibili, cacciando via (o addirittura divorando) chiunque si azzardi a venire a capo del loro mistero. Un giorno, addirittura, una valanga seppellisce le vacche sotto tonnellate di pietrisco, un altro giorno la signora Molinaro prende a cucinare pietre in brodo e intanto Nonno Ramaglia si mette a spaccare a colpi di mazza una fila di pietre al cospetto di un cumulo di ciottoli costretto ad assistere a questa esecuzione esemplare. Il tempo passa, i ritmi e i riferimenti spaziali si modificano, le pietre smettono di essere considerate intruse e diventano parte integrante dello spazio, slittando, dal fenomeno accidentale che erano all’inizio, in identità, nutrimento, cultura. La vita minerale –”i sassi dell’iniqua fortuna”, avrebbe detto l’Amleto shakespeariano – si sbriciola nella vita umana.
In modo analogo a quanto accadeva nel suo precedente romanzo, Neve, cane, piede, Morandini non intende la montagna come lo spazio-tempo delle metamorfosi individuali, la dimensione gloriosa in cui si accede a una consapevolezza adulta di sé e del mondo riconciliandosi con chi si era perduto; le sue sono invece alture dimesse, montagne minori, “Alpi da quattro soldi che si disfano appena le tocchi, si aprono come mele, se le guardi storto quelle pisciano sabbia”. Luoghi in cui ciò che accade è incoerente al pari del brecciolino, una materia tutt’altro che epica, semmai debole, comica e sfrigolante, la superficie incerta su cui il passo esita e sbaglia rivelando l’umano come qualcosa di buffo, fallace, naturalmente grottesco.

(Giorgio Vasta, Robinson di Repubblica, 7 maggio 2017; poi ripreso su Minima&moralia)

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