Ecco, datela a lui. La nostra bella lingua italiana, continuamente massacrata, storpiata e offesa… Datela a Claudio Morandini, che ne avrà cura, la riempirà di coccole e di amore. E tutto questo senza strafare, senza bisogno di effetti speciali. Perché il suo ingrediente segreto è semplicemente l’eleganza.
Ma veniamo al libro. L’editore precisa che è “il suo primo libro per ragazzi”. Uhm… ragazzi? Non vorrei che si desse un senso riduttivo a questa definizione. Perché volendo ricorrere a generi e caselle, si dovrebbero inquadrare i precedenti romanzi dell’autore dentro filoni come il fantastico o il surreale. Ma sono definizioni che lascerebbero interdetti. Il fatto è che la scrittura di Morandini mal sopporta d’essere imbrigliata in categorie, e del resto ciò vale per tutta la buona letteratura. Voglio dire: che pensereste a vedere il “Pasticciaccio” di Gadda sbattuto nello scaffale dei polizieschi? Fermiamoci qui, il discorso sui “generi” ci porterebbe troppo lontano. Basti sapere che questo libro è buono e godibile per tutti.
L’ambientazione montana è ormai una cifra immancabile negli ultimi romanzi di Morandini: vedi Neve, cane, piede e Le pietre. Ormai ce n’è abbastanza per trarre qualche conclusione su questo aspetto, a partire dal fatto che, banalmente, deve trattarsi di un elemento autobiografico della sua vita in Val d’Aosta. Al di là di questo, dicevo, c’è da rilevare la funzione rivestita dall’ambiente montano, e mi sembra di poter evidenziare almeno due aspetti. La montagna come espressione della natura e delle sue forze ancestrali che, a dispetto di ogni preteso affrancamento, continuano a esercitare la loro presa sull’uomo, in modo tanto più potente quanto più il loro impatto è eluso o minimizzato: la natura passa sempre a chiedere il conto, se non altro in termini di sottomissione ai cicli del tempo che scorre e trasforma. Un altro aspetto dell’ambientazione montana è la possibilità di radicare le storie nella vita di paese, dove si possono riconoscere, nella semplicità di un microcosmo, tutte le tipologie e i comportamenti della vita umana nella sua essenza genuina: quell’ordito sostanzialmente costante con cui devono fare i conti tutte le possibili trame, più o meno complesse, di una tessitura di vita.
Protagonista della storia è Remigio, un ragazzino tranquillo e diligente a scuola, che proprio per questo è soggetto al bullismo dei compagni. Ma non si tratta solo delle angherie commesse fra ragazzi a volto scoperto: c’è un evento apocalittico, nell’immediato futuro, che incombe come una minaccia ineludibile. È il Carnevale, che a Pocacosa assume l’aspetto di un rito pagano e sanguinario. In quell’occasione i più esagitati, nascondendo il viso dietro maschere terrificanti che ne difendono l’anonimato, possono infierire indisturbati su tutto e su tutti. Si sa, è scientificamente provato che l’anonimato, l’omologazione e la complicità di gruppo contribuiscono a superare ogni freno nello sfogo bestiale degli istinti. Remigio lo sa, ed è attanagliato dalla paura. I suoi carnefici lo sanno, e gongolano pregustando il momento.

Portano maschere mostruose, realizzate con corteccia, cartapesta, plastica o lamiera, insomma quel che si trova in giro. Non c’è parte del loro corpo che sia scoperta, che possa rivelare la loro identità. Sospetti che siano i tuoi vicini, o meglio i loro figli, i tuoi amici di quando eri più piccolo, i tuoi compagni di classe o i loro fratelli maggiori, ma non sai esattamente quali. Potrebbero essere anche delinquenti dei paesi vicini, o sconosciuti, o mostri veri, diavoli saliti dall’inferno per spassarsela un po’.

Certo, basterebbe abolire quel tipo di festa, ma un’altra verità lampante è che una tradizione, per quanto barbara, è dura a morire. Del resto, è luogo comune che il Carnevale sia nato proprio per dare un po’ di sfogo ai cristiani prima della Quaresima. Neanche il parroco e le autorità, dunque, se la sentono di intervenire. Remigio deve vedersela da solo, inventandosi qualcosa di nuovo. E qui si scopre un’altra verità: che non c’è abitudine tanto consolidata da non poter essere sradicata da un soffio di creatività.
Anche perché Remigio proprio solo non è. Qui ecco spuntare un’altra figura cara all’autore. L’eremita, il vecchio burbero e solitario, misterioso da incutere paura, pazzo al punto di diventare un gran saggio, o viceversa così saggio da essere scambiato per pazzo. Comunque sia, è una forza della natura, e la natura, agli occhi dell’uomo, non è soltanto dato sensibile, ma anche archetipo e divinità.
Non c’è altro da aggiungere, se non che si tratta di una lettura godibilissima per tutti.

(Giovanna Repetto, Il Paradiso degli Orchi)

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