SOPRA LE DOLINE E SOTTO LE MONTAGNE: “GLI OSCILLANTI” DI CLAUDIO MORANDINI

“A proposito, lo sapevi che una volta i due villaggi erano abitati dalla stessa gente?” continua la signora Matilde mentre torniamo al villaggio. “D’inverno – parlo di un altro secolo, io ovviamente mica c’ero – si saliva a Autelor tutti assieme, d’estate si andava a prendere il fresco a Crottarda. Eravamo gli stessi, si veniva e si scendeva insieme, con i bambini e le bestie. Sembrava che andasse bene a tutti, e che questa transumanza potesse durare all’infinito. Poi, va’ a sapere che cosa è successo. Qualcuno si sarà attardato a Autelor, qualcun altro sarà rimasto a Crottarda per motivi suoi.” (p. 95)

A cosa si riferisce il titolo del romanzo di Morandini? Di preciso, chi è che oscilla? Ebbene, leggendo la citazione in quarta di copertina sappiamo che a oscillare sono «questi poveri abitanti di Crottarda, in ogni gesto, ogni giorno»: oscillano fra un’esagerata autostima nei confronti di tutto ciò che è Crottarda e un odio viscerale per tutto ciò che invece è Autelor, il paese sull’altro versante della montagna; un odio, così vecchio da risultare immotivato, che oltretutto è anche ricambiato da Quelli Là, i quali invidiano ai crottardesi l’ombra, mentre questi ultimi invidiano, senza dirlo apertamente, la luce del sole a cui i primi sono esposti.
A oscillare è anche la protagonista, arrivata in questo sperduto paesino circondato da montagne non meglio specificate per registrare i canti dei pastori, un linguaggio antico e primitivo usato – sembrerebbe – per comunicare a distanza sfruttando gli echi delle valli. Oscilla fra il desiderio di andare in fondo a un mistero che si infittisce giorno dopo giorno – ché si sa che la montagna è il luogo dei misteri, soprattutto se percorsa da tunnel e cunicoli inesplorati, soprattutto se abitata da autoctoni aperti al dialogo ma riservati su tutto – e quello di fuggire da un luogo d’improvviso divenuto ostile.
Ma oscillanti siamo anche noi lettori, davanti un romanzo che spazia dalla commedia, all’assurdo, al thriller.
Di commedia si può parlare perché tutta la storia è punteggiata da una sana ironia volta a portare alla luce i luoghi comuni e le contraddizioni del campanilismo all’italiana, fatto di microscopici comuni o frazioni che si fanno vanto di miti e leggende popolari, di tesori nascosti nelle chiese, di un folklore più o meno genuino, ma anche di salutari sfottò nei confronti dei paesi confinanti e di meno salutari contrasti e ostracismi nella vita di tutti i giorni. Come si legge nella citazione a inizio recensione, infatti, l’idea è che di base saremmo tutti compaesani, e tuttavia, per motivi che quasi mai si riescono a razionalizzare, ci dilaniamo fra noi attraverso un odio innaturale.
La commedia si fonde con l’assurdità delle situazioni, soprattutto nella fase avanzata del libro: l’ostilità dei crottardesi, mista alla tradizione dei canti pastorali che funge da evento scatenante e non si sa quanto sia reale e quanto leggenda, senza contare la conformazione del terreno che sembra sprofondare nelle doline sotterranee preannunciando una catastrofe che un giorno, forse, si verificherà – insomma, tutto questo crea un ambiente claustrofobico e inverosimile, nel quale è difficile distinguere fra buffonate e reale pericolo. La sensazione è quella di vivere, insieme alla protagonista, una situazione surreale da cui non si riesce a fuggire se non, letteralmente, scappando dalla montagna. Sembra di essere, per usare un paragone letterario, nelle atmosfere del Castello di Kafka, nel quale un agrimensore arriva in città per svolgere il proprio lavoro e si ritrova coinvolto in beghe senza via d’uscita.C’è infine il thriller: il mistero che si cela dietro ai canti, s’è detto, ma anche le voci notturne a cui non pare legato alcun volto, per non parlare delle cantine delle case che contengono pertugi capaci di portare nell’oscurità di un mondo sotterraneo.
È difficile separare questi tre aspetti, concatenati fra loro sin dall’inizio e in grado di trasformare il tranquillo percorso di studio di un’etnomusicologa in un viaggio allucinato e disturbante, il cui termine fa fare più di un respiro di sollievo. È proprio questo intreccio di genere a dare al romanzo di Morandini quel qualcosa in più, quel quid che lo distingue da altri romanzi, magari simili, ma che sono commedia o assurdo o thriller… e non tutte e tre le cose insieme.

(David Valentini, Critica Letteraria)

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