Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta a essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Ti dirò, se hanno la maiuscola le idee mi mettono a disagio, possono invadere un libro e forzarlo in un’unica direzione. Preferisco lavorare su ideuzze con la i minuscola, su spunti da poco, perché sono quelli che promettono i maggiori sviluppi, che si adattano alle metamorfosi più sorprendenti – sorprendenti prima di tutto per me. Pensa ai temini di due o tre note di certe pagine di Beethoven e a quello che ne viene fuori. Non è tanto l’idea che conta, per me, sono le potenzialità nello sviluppo. Ricordi, frammenti di conversazioni captate per strada o in una sala d’aspetto, pezzi di sogni, cose viste in giro, curiosando “sotto le pietre” come dico sempre, ecco da dove parto di solito. A volte sono singole parole a diventare idee, paesaggi, o personaggi.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Dipende, ogni volta è una scoperta, a volte la parola che conclude arriva per caso, a volte dopo lunghe ricerche. In alcuni casi l’ultima parola è stata in realtà la prima, e tutto ciò che la precede si è sviluppato a ritroso. In ogni caso, l’ultima parola è tale probabilmente solo a libro stampato: fino a quel momento niente è sicuro, e il testo è ancora fluido. E non è davvero l’ultima possibile: un romanzo o un racconto sono fatti, oltre che di ciò che è scritto, anche di tutto ciò che è rimasto implicito, di pagine mancanti, o espunte, di percorsi non battuti ma possibili, di risonanze, di ciò che viene in mente troppo tardi.
Ne Gli oscillanti l’ultima parola è e non poteva che essere “laggiù”: perché nella strana montagna che racconto io invece di salire si scende, e invece di alpinisti si incontrano speleologi.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Se c’è stato, non me lo ricordo, davvero. Ora però, dopo tutti questi anni e dopo nove romanzi pubblicati, altri testi in via di pubblicazione e svariati racconti sparsi qua e là, sento che la mia vita è diventata un continuo tradurre ciò che vivo e vedo e penso in parole, in frasi. Di fatto, ora non posso fare altro che “scrivere”, e in effetti scrivo sempre, anche quando non ho la penna in mano o le dita sulla tastiera. Non è una necessità (tantomeno una vocazione, dio ce ne scampi), ma una condizione, costante, assorbente, fisiologica, impegnativa, spesso gratificante, talvolta esasperante, mai drammatica, mai penosa.
Diciamo che è il mio modo preferito di provare a trovare, in mezzo al caos della vita, un senso possibile ogni volta diverso, un ordine per quanto precario, o almeno una direzione.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
È possibile che lo diventi, quando la ricerca della propria “voce” diventa ricorso a manierismi facilmente identificabili. Comunque, è fondamentale che si parli di stile – è importante cioè che chi si dedica alla scrittura non si dimentichi che sta lavorando con le parole, non con i fatti, e che anche i fatti in letteratura sono tradotti in parole, in suoni, segni, ritmi, tutti elementi che meritano ogni nostra attenzione.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca a incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Credo che la letteratura inviti alla scoperta, alla pluralità, alla molteplicità, alla complessità, all’ambiguità, al dubbio, all’alterità, alla crisi, e che in questo stia la sua forza anche “politica” (le virgolette sono d’obbligo). La buona letteratura lo fa di striscio, indirettamente, sommessamente, polifonicamente, attraverso le allusioni, intessendo un reticolato di rimandi, richiamando il lettore al ruolo attivo e impegnativo di interprete. Se non lo fa, se non vuole farlo o non ci riesce, temo non sia letteratura, ma intrattenimento.
(Cinque domande, uno stile, a cura di Massimiliano Città)