Con noi oggi, per la nostra rubrica di approfondimento, Claudio Morandini autore di Gli oscillanti.
Come sempre, approfittiamo della disponibilità degli autori che trattiamo per conoscerli meglio e andare un oltre la semplice recensione… E diamo il benvenuto a Claudio Morandini, autore che, in un’intervista, ha definito se stesso oscillante.
1. Partendo dal significato della parola, si può pensare che il termine oscillante sia sinonimo di indecisione e/o di alterno umore. E a questo punto la curiosità mi spinge a chiedergli perché oscillante?
Perché tutto oscilla davvero, nel romanzo: gli uomini, le bestie, gli elementi del paesaggio. È un oscillare tra opposti – tra luce e ombra, alto e basso, sopra e sotto, veglia e sogno, vita e morte, verità e menzogna, dramma e scherzo, accoglienza e respingimento, bontà e cattiveria – o, più semplicemente, è indecisione, tentennamento, rimuginio. È anche il senso di vertigine che si può provare stando in equilibrio su un crinale. È instabilità, smottamento, scivolamento. E non dimentichiamo che anche i suoni – e il romanzo ne è pieno, intonati o meno da voci umane – si propagano nell’aria attraverso oscillazioni.
Detto tra noi, preferisco l’oscillazione, che sento come parte della mia natura e che mi pare felicemente feconda di idee e sviluppi, alla solidità granitica di chi non cambia mai o non si sposta di un millimetro dalla sua posizione.
2. Leggendo qualche notizia sulla tua carriera ho notato “un grande avvenire dietro le spalle” (come un noto attore ebbe a dire di se stesso). Lo scrivere fa parte della tua vita da diverso tempo, che tipo di esigenza o bisogno riempie nella tua vita? in altre parole, più terra-terra, se vuoi, perché scrivi?
Gli oscillanti è il mio nono romanzo, in effetti; si aggiunga un certo numero di racconti sparsi qua e là, senza andare a ripescare certe lontane esperienze di scrittura per la radio o il teatro.
Scrivo perché ho delle storie da raccontare, e le voglio condividere con dei lettori; in cambio, mi aspetto da loro che mi aiutino a colorare di senso queste storie, che ci entrino come ci sono entrato io e le abitino e ci si muovano e magari si spingano anche un po’ più in là di quanto abbia fatto io.
Come vedi, sto terra-terra anch’io: non è “vocazione”, la mia, non mi piace parlare di “ispirazione”, sono termini che mi mettono in imbarazzo. Sono uno scrittore che gioca a un gioco molto serio e lungo, rimugina parecchio, vorrebbe essere tutto cervello ma si imbambola spesso, e ormai “scrive” sempre, anche quando non lo fa davvero (e non solo certo il primo a dirlo).
3. Premetto che Gli oscillanti è il tuo primo libro che leggo, ho notato uno stile di scrittura non semplice, non di primo impatto ma alquanto e penso anche volutamente, poco lineare. Questa caratteristica è una tua peculiarità, un tuo carattere distintivo, presente anche nei romanzi precedenti o è uno specifico di questo tuo ultimo libro?
C’è la mia voce, dietro Gli oscillanti; ma c’è anche la voce del personaggio femminile che racconta in prima persona, la giovane ricercatrice di etnomusicologia che giunge a Crottarda. Forse ci assomigliamo un po’, lei e io: piace a entrambi girare un po’ attorno alle cose in cerca delle parole giuste o di quelle meno ovvie, abbiamo gli stessi pudori, anche, mettiamo a fuoco i medesimi dettagli e ne lasciamo sfocati altri, la complessità è una sfida che piace a entrambi. La mia voce si adatta, romanzo dopo romanzo, alle esigenze del momento e si intona con le voci presenti nella storia; ma è la mia voce, l’ho educata negli anni, l’ho alimentata attraverso le buone letture di un canone letterario tutto mio, e mi piace.
4. Ho trovato Gli oscillanti un romanzo con diverse chiavi di lettura. Una di queste è sicuramente allegorica (se hai avuto modo di leggere la mia recensione al tuo libro, te ne sarai accorto), ho visto io l’allegoria o effettivamente era nelle tue intenzioni farla entrare nel contesto del romanzo?
L’allegoria, se c’è, mi è scappata tra le dita. Intendo dire che non sento di appartenere al club degli scrittori che invece di storie elaborano giganteschi enigmi e disseminano indizi per un lettore invitato non a inventare, ma a decifrare. Preferisco le storie pure, quelle ambigue, inafferrabili, irrisolte anche, perché le sento più vicine alla vita.
Ogni storia può essere interpretata in chiave allegorica, anche le mie. Ma mi pare poco carino che sia l’autore a nascondere determinate allegorie nel suo testo, come se volesse sottoporre il lettore a un test d’intelligenza.
5. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere quella psicologica: la protagonista “sente le voci”, anzi i canti… e, a mio avviso, tu giochi molto su questa cosa, lasciando di proposito il lettore nell’incertezza, mi sbaglio?
“Sente le voci”, sì, ma non solo: le ricorda quando le sentiva da bambina, poi le immagina, le vede (cioè, come chiunque abbia una formazione musicale, tende a trasformarle mentalmente in segni, in note). All’inizio è sinceramente convinta di potere studiare con i suoi strumenti la misteriosa grammatica dei canti dei pastori di Crottarda; è ottimista, in un modo anche ingenuo, forse è anche un po’ arrogante nella sua sicurezza. Le sue certezze saranno smontate un po’ alla volta, come vedrà chi avrà la pazienza di leggere il romanzo.
Mi piace raccontare l’incrinarsi di questa fiducia. Non il crollo, l’annichilimento: ma il perdere solidità di qualcosa in cui si crede, l’insinuarsi del dubbio, l’esitazione, il ripensamento, il tornare a riprovarci, queste cose qui. È la vita: passiamo la nostra vita a cercare di decifrare segni, che vediamo anche dove non ci sono, e le nostre domande sono assai più numerose delle risposte che ci vengono in mente o che altri possono fornirci.
6. Altra caratteristica rilevante è il campanilismo feroce o meglio l’odio quasi atavico che c’è fra le due diverse comunità, anche questo potrebbe essere un riferimento alla realtà italiana… no?
Sì, potrebbe, mi suona assolutamente legittimo, e riconosco che mi è venuto in mente mentre lavoravo a certe parti del libro, ma, come ho già detto, l’interpretazione è giusto che rimanga compito del lettore e non sia pilotata. Se il romanzo è buono e ricco fornirà spunti a sufficienza, ma indicare la chiave per interpretarli non credo sia compito dell’autore, non nella narrativa d’invenzione, almeno.
7. Gli oscillanti è un romanzo che rispecchia un po’ tutti noi, in fondo un minimo di “dondolamento” è caratteristica comune all’umanità in genere, tu nel libro la esalti, in qualche modo, la accentui, la ironizzi e ci giostri tutta la storia… io ho una curiosità a questo punto c’è stato qualcosa di preciso che ha provocato la tua ispirazione? O meglio da cosa nasce il romanzo?
Tutto è nato dal contrasto tra luce (Autelor) e ombra (Crottarda): la rivalità tra i due villaggi è, come dicevi, atavica e stabile. L’oscillazione inizia quando si inserisce l’elemento estraneo, cioè quando arriva la protagonista. È la sua presenza, la sua ostinata ricerca a mettere in movimento tutto, a far vibrare tutti gli elementi che altrimenti sarebbero rimasti inerti.
8. Il lettore che si approccia al romanzo, prima di entrare nel meccanismo della storia, può trovarsi un po’ spiazzato (a me è successo)… domanda cattivella, quanto c’è di ragionato da parte tua? Mi spiego meglio lo hai fatto apposta a rendere spiazzante la storia, per suscitare curiosità, per non uniformarti, per risultare originale …
Nel mondo de Gli oscillanti si deve entrare piano, senza fretta. È un mondo torpido e tortuoso, il lettore è invitato ad abituarsi un po’ alla volta a questi ritmi, a questi tempi. Ed è buio, ricorda, meglio non procedere troppo rapidamente. Se il lettore si sente spaesato è un bene, l’importante è che non perda interesse, che non si scoraggi solo perché il montaggio non è frenetico e i personaggi non sono i soliti. È lo stesso spaesamento della protagonista, ed è secondo me una sensazione molto vera, che proviamo spesso nel corso della nostra vita.
Comunque no, non c’è niente di ragionato o di calcolato a tavolino – a tavolino si dosano colpi di scena, climax, effetti, solletichi, emozioni, per un lettore visto come un mero consumatore, e non è certo il mio caso. Se avessi fatto questo tipo di ragionamento ne sarebbe venuto fuori un thriller, credo – ma ormai si è capito che non amo questo genere di strategie. Nel mio mondo immaginario invece sono io il primo che si perde, che vuole lasciarsi sorprendere, che si aggira come in un sogno. Non saprei raccontare in altro modo, in ogni caso.
9. ll gioco reale-irreale che ha un vago sentore pirandelliano, su cui si basa tutta la storia, resta così fino alla fine: il finale è infatti aperto e potrebbe avere un seguito volendo… o no? Personalmente lo vedrei bene trasformato in commedia…
Hai colto un aspetto per me importante: c’è una forte componente teatrale nei miei romanzi, evidente nei dialoghi, nel taglio delle scene. Quando immagino un dialogo lo penso “a teatro”, con quei ritmi, quei movimenti e quell’intonazione lì, non “in televisione”, tantomeno “al cinema” o su Netflix.
Il romanzo si chiude, ha una sua rotondità (lo spero, almeno), ma rimane aperto, e lascia al lettore il desiderio di sapere di più, di immaginare possibili sviluppi. Questo per me è un punto di forza. Un romanzo che chiude tutto, che dà tutte le risposte, scioglie tutti i nodi, oltre a produrre nel lettore un senso di sazietà e, con rispetto parlando, di costipazione, gli toglie ogni libertà di movimento, lo tratta come un contenitore da riempire, non come un vero interlocutore.
10. Non credi che ne Gli oscillanti ci sia “tanta roba”, troppa, per un romanzo di sole 256 pagine?
C’è davvero tanta roba, tantissima, se pensi anche a tutto quello che il romanzo non dice ma lascia sottinteso, alle allusioni, alle parti implicite. Non ci sono solo le parole, in un romanzo, ma pure i silenzi, le risonanze, gli spazi bianchi, le interruzioni. Tanta, tantissima roba. Ma no, non è troppa. Sarebbe stata troppa, insopportabilmente troppa se a ogni dubbio, a ogni domanda il romanzo avesse fatto seguire una risposta accomodante, una lezioncina rassicurante. Allora sì che il testo si sarebbe gonfiato di paccottiglia inutile.
Ringraziando Claudio Morandini per la disponibilità, chiudo questa intervista riportando ciò che, a mio avviso, delinea ancora meglio il suo stile: C’è la mia voce, dietro Gli oscillanti; ma c’è anche la voce del personaggio femminile che racconta in prima persona, […]. Forse ci assomigliamo un po’, lei e io: piace a entrambi girare un po’ attorno alle cose in cerca delle parole giuste o di quelle meno ovvie, abbiamo gli stessi pudori, anche, mettiamo a fuoco i medesimi dettagli e ne lasciamo sfocati altri, la complessità è una sfida che piace a entrambi.