La montagna e i montanari, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma con Gli oscillanti di Claudio Morandini non ci troviamo nella cornice ormai collaudata dei gialli ambientati in contesti alpini né dei serial televisivi che ci propongono la montagna come luogo della verità, dell’autenticità. Il tema è piuttosto quello dell’alterità, vera o comunque percepita, dei paesani d’alta quota, anche se il racconto non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.
I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità sfuggente, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.
È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia.
La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi di melodie e ritmi solo là conservatisi.
Senonché, a poco a poco emergono fra i crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili, comportamenti stravaganti e ambigui. I pastori che finalmente la protagonista incontra si rivelano «autori di imbrogli sonori, di contraffazioni da guitti». Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti «questi poveri abitanti di Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e il loro lato nascosto (…) tra lo sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza che (…) riporta un senso tangibile di malinconia».
«Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’ oscillante finisco per sentirmi anch’io». Oscillante e, alla fine, guardata con sospetto e invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa montagna magica che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima. Ci tornerà dunque, e «presto, senza pensarci troppo», perché «C’è ancora parecchio da fare laggiù».
(Carlo Simoni, Corriere della Sera – Brescia, 7 novembre 2019)