Dai finestroni luridi di smog si notano le masse asimmetriche di acciaio che fuoriescono in diagonale dal vecchio complesso in mattone dell’ospedale, come costole dopo un incidente spaventoso. Ecco la bizzarria profumatamente pagata, lungamente realizzata: morfologie metalliche, aggressive, che avrebbero dovuto suggerire un’idea di contemporaneità e invece si stanno ricoprendo di ruggine, piantine, nidi, cacate di uccelli e di gatti. Una modernità nata già cadente e scricchiolante, che durante le giornate di vento sibila e ulula e oscilla pericolosamente, e qui e là già transennata, rattoppata alla meno peggio, come se nessuno avesse previsto un piano di manutenzione ordinaria.

Questo è il teatro del delitto, un antico ospedale trasformato in post moderno ateneo. Scenario già agghiacciante di per sé, ma non nuovo per chi ha la ventura di lavorare oggi nei servizi pubblici, in cui il decadimento ambientale fa da specchio al degrado delle istituzioni.
Il registro dell’ironia e dell’assurdo è il più adatto a trattare il tema, e purtroppo anche il più realistico. È la nostra quotidianità: la strategia dello sfascio tenacemente perseguita in Italia in questi sciagurati anni. E’ questo il vero delitto di cui si parla. D’accordo, c’è un’aggressione, c’è del sangue, e c’è notizia di altre persone misteriosamente assassinate. C’è perfino un poliziotto che diligentemente indaga. Ma i veri assassini sono altrove, e il vero delitto non è il singolo gesto violento, ma una prassi, non meno violenta, capillarmente diffusa.
Così questa storia, i cui personaggi sono nello stesso tempo tipici e unici, si fa leggere come un apologo senza perdere la sua valenza narrativa.
Il tiranno di cui si tratta è un vecchio rettore, malato e inetto, ma deciso a non abbandonare la poltrona. Personaggio emblematico, intorno al quale ruotano i docenti dell’ateneo, ormai ridotti a figure caricaturali, perché se è vero che il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che il sonno delle istituzioni genera una massa di frustrati e malati di mente.
Ognuno ha cercato una sua personale via di fuga: c’è il “cincinnato” che si è ritirato in campagna ad accudire cani randagi, c’è la bigotta che difende i crocifissi, c’è il professore che se la spassa con le giovani allieve, e c’è quello che si dedica in modo maniacale a ideare piani per l’eliminazione fisica del rettore.

Mi porta alla scalinata che si inerpica pretenziosa dall’androne principale al primo piano. Mi costringe a percorrerla.
“Vedi? Gradini ripidi. E tirati a lucido.”
“Che vuoi fare, spingerlo giù il vecchio?”
“Sai quanto è incerto sulle gambe. Non dovrebbe essere impossibile …
(…)
“E se invece delle scale prendesse l’ascensore? Non è improbabile, viste le sue condizioni.”
Calandrone mi guarda stranito. “Sei uno stronzo” conclude. “Devi sempre rovinare tutto.”

La scrittura è brillante, veloce, come il testo di una commedia, e infatti se si volesse farne una rappresentazione non ci sarebbe molto da cambiare. Tanto più che a un certo punto Morandini esce dallo schema del romanzo per entrare nel teatro dell’assurdo, e in questo salto si racchiude, a seconda dei punti di vista, la genialità e il limite di questo libro.
(Giovanna Repetto, su “Il paradiso degli orchi)

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